I rapporti tra finanza e politica sono in queste settimane momento strutturale rilevante nell’establishment del Paese: più di quanto possano indicare dialettiche “sovrastrutturali” pur marcate, come quella tra il presidente Napolitano e il premier Berlusconi sulla riforma della giustizia o sul rispetto del galateo istituzionale nel rimpasto. Un esempio tra tutti? L’impegno spasmodico della Lega nel difendere il governo e nel ridurre le tensioni politiche: spesso maggiore di quello profuso dallo stesso Berlusconi. Un ruolo inedito per Bossi.
Il Carroccio avrà pure da concludere la sospirata campagna federalista entro la fine della legislatura, ma nel frattempo presidia con Giulio Tremonti un ministero che da solo vale il governo. Lo hanno rilevato polemicamente pressoché tutti i ministri, da ultimo lo stesso premier, che contro il “suo” ministro dell’Economia ha mosso perfino i media di famiglia. Ma le tensioni sul rigore di bilancio – ancora una volta – sono solo una parte della storia e forse non la più importante. Il problema non è qualche miliardo in più o in meno di spesa pubblica, di assunzioni di precari nella scuola o di sgravi alle imprese. E forse neppure il ridisegno fiscale federalista.
I temi “strutturali” del “dossier Tremonti” sono tre: chi è il garante sui mercati debito pubblico italiano, cioè (di questi tempi) il vero “capo dello Stato”? Chi sta rilanciando lo Stato imprenditore e banchiere (Eni, Enel, Poste, Finmeccanica, Cassa depositi e prestiti, Banca del Sud, ecc.)? E chi è, infine, nell’altra metà del cielo finanziario, il “regulator” ultimo del sistema bancario nazionale, del risparmio delle famiglie italiane, della Borsa, del controllo di altre aziende-Paese come Generali e Telecom?
Non si può dar torto a chi, oggi, a queste domande fornisce un’unica risposta: Tremonti. Non per nulla il silenzio che ha accompagnato l’uscita di Berlusconi su “Tremonti erede” è stato ben più eloquente del chiacchiericcio che aveva circondato, pochi giorni prima, l’apparente investitura per il ministro della Giustizia Angelino Alfano. In questo caso nessuno tra partecipanti e osservatori del gioco politico si è sentito di azzardare a colpo sicuro tra due interpretazioni, forse entrambe valide in parte: la classica “bruciatura” per il “primus” fra i ministri divenuto ormai scomodo rivale; o il riconoscimento a denti stretti che “con” o “dopo” Berlusconi – in questo momento al governo del Paese – c’è solo Tremonti.
Un tempo si sarebbe parlato di “chiarimento in corso” tra boss del pentapartito o correnti Dc. In queste settimane il “chiarimento” si è invece aperto con un evento finanziario: la brusca rimozione di Cesare Geronzi dalla presidenza delle Generali, con il ruolo chiave recitato da Tremonti, in filo diretto con Mediobanca e in particolare con il vicepresidente di UniCredit, Fabrizio Palenzona. Il chiarimento è poi proseguito con l’inatteso appoggio dato da Berlusconi all’Opa Lactalis su Parmalat (di fatto contro il tentativo tremontiano di organizzare una difesa con la Cdp e le grandi banche), si è detto in cambio del supporto francese alla candidatura di Mario Draghi alla presidenza della Bce. La decisione dei paesi dell’area euro sulla successone a Jean Claude Trichet è attesa entro fine giugno, ed è quella la data-termine per la probabile conclusione del chiarimento interno italiano: o almeno di una sua prima fase.
La “promozione” di Draghi a Francoforte, in ogni caso, non è ancora certa. Non ha stupito che la stampa tedesca abbia rilanciato la richiesta del Governo Merkel per il vertice Bce, ponendo abilmente sul tavolo il sostegno europeo a Draghi per la direzione generale del Fmi, che il francese Dominique Strauss-Khan sta per abbandonare (per candidarsi all’Eliseo contro Nicolas Sarkozy). Il profilo di Draghi per la poltrona Fmi (che storicamente è nel potere di indicazione degli Stati Uniti) sarebbe ineccepibile: forse più ancora che per la guida della Bce. E la direzione generale del Fondo è finora sempre stata appannaggio di un europeo continentale (il penultimo era lo spagnolo Josè Rato). Ma nel dopo crisi la riforma del Fondo stesso, con l’aumento di peso per i paesi emergenti, pare non assicurare più una prassi pluridecennale: la nomina di un direttore generale brasiliano o addirittura cinese non è più utopia. E in ogni caso per dirottare Draghi a Washington, frau Merkel dovrà reinventarsi in tutta fretta una candidatura tedesca o “satellite” come quella dell’olandese Wim Duisenberg. Non facile.
Ammettiamo quindi che Draghi approdi all’ultimo piano dell’Eurotower. Avrà “vinto” Berlusconi? Certamente il premier potrà vantare un prestigioso successo diplomatico, utilissimo anzitutto alla sua pericolante immagine internazionale. Avrà sicuramente collocato in un nodo strategico un tecnocrate romano sempre in buoni rapporti con Gianni Letta (senior advisor della Goldman Sachs in Italia), cioè il leader operativo dell’ala “non settentrionale” del Pdl, oggi sotto attacco del vasto nordismo tremontista. Di più: Draghi sarà la voce della stabilità dell’euro e il giudice ultimo dei buoni e dei cattivi nel club dei 17 dell’eurozona. Anche se FT lo ha definito un “non italiano”, difficile che dimentichi il premier che l’ha sponsorizzato. E che dimentichi un Paese di cui avrebbe sempre più chance di diventare primo ministro magari già al termine del primi quattro anni di mandato alla Bce
Tremonti cesserebbe inevitabilmente di essere il volto unico dell’Italia sui mercati. Avrebbe tuttavia l’opportunità di consolidare il suo potere locale avendo voce in capitolo nella designazione del successore di Draghi alla Banca d’Italia. E non è un caso che Vittorio Grilli, attuale direttore generale del tesoro, sembri in vantaggio sulla candidatura “di ritorno” di Lorenzo Bini Smaghi, finora membro italiano dell’esecutivo Bce. Più indietro appare anche Fabrizio Saccomanni, attuale direttore generale di Via Nazionale, benché sostenuto da voci come quella di Angelo De Mattia, ex segretario particolare di Antonio Fazio e stretto collaboratore di Geronzi alla presidenza delle Generali.
Il toto-risiko in ogni caso, al momento punta su questo organigramma: Grilli governatore; Anna Maria Tarantola promossa da vicedirettore a direttore generale di una Banca d’Italia sempre più “banca delle banche”, sempre più “vigilante”. Bini Smaghi andrebbe invece alla direzione generale del Tesoro a presidiare la ricostruzione dello “state banking” attorno alla Cassa depositi e prestiti: il percorso inverso da quello avviato una ventina d’anni fa da Draghi, grande privatizzatore dei gioielli italiani sulla tolda del Britannia.
In questo quadro Tremonti – che oggi sarà in prima fila a Piazza Affari ad ascoltare il “suo” presidente della Consob, Giuseppe Vegas, all’esordio – avrebbe una supervisione forte su tutte le caselle di “Finanza Italia”: mentre le Fondazioni bancarie dell’Acri si accingono a ricapitalizzare le grandi banche e annunciano per il 2012 una loro auto-riforma. E dietro la formula “Carta delle Fondazioni” prende forma una specie di “super-patto di sindacato”.