Nel nostro Paese non v’è stata una crisi bancaria”. Miglior complimento – sobrio ma lapidario – il Governatore Mario Draghi, al passo d’addio da Bankitalia, non poteva fare a un sistema creditizio con cui il più globalista dei banchieri centrali non si è mai trovato in sintonia piena. E infatti, anche nelle Considerazioni finali d’addio prima di trasferirsi al vertice Bce, Draghi non ha mancato di lasciare alle banche italiane un lunga lista di ammonimenti e di “compiti a casa” da fare.

Ed esplicita è stata la rivendicazione dei meriti di una vigilanza dalla “tradizione salda”, affidata a “civil servants preparati e retti”: un’affermazione tanto più netta e impegnativa all’indomani della condanna del Governatore predecessore, Antonio Fazio, anche per abuso d’ufficio nelle sue funzioni di massimo “regulator” bancario.

Un Governatore che ha costruito la sua candidatura alla Bce alla leadership del Financial Stability Board non poteva essere esitante nel sottolineare la necessità di “buone regole”, ma anche di “prassi operative forti”, senza le quali “le crisi bancarie non si evitano”. E non poteva non rilanciare, chiedendo per la Vigilanza “poteri di rimozione” per i manager responsabili di “condotte nocive”. Posizione ineccepibile, soprattutto a difesa di Anna Maria Tarantola, promossa da Draghi vicedirettore generale e in predicato di diventare prima direttore generale donna a Palazzo Koch.

In qualsiasi “prassi operativa”, tuttavia, l’effetto è sempre statistico e i principi si misurano quotidianamente con la realtà: e anche nei cinque anni di Draghi in Via Nazionale, perfino il Financial Times, talvolta, ha avuto modo di sorprendersi che il super-Governatore italiano “non alzasse il ciglio” (ad esempio, quando il presidente di Mediobanca, Cesare Geronzi, ingaggiò una dura battaglia con il management sulla governance). E in ogni caso, molti megabanchieri di Wall Street e della City che non hanno evitato lo tsunami finanziario sono ancora al loro posto: a cominciare da Lloyd Blankfein, Ceo della Goldman Sachs. Sia negli Usa che in Gran Bretagna, alcuni Ceo si sono dimessi in coincidenza con i salvataggi pubblici, ma non hanno rinunciato a super-bonus e raramente hanno risposto in sede giudiziaria.

Anche il caso Italease – per di più sul terreno delicatissimo della finanza derivata, già nell’estate 2007 – ha visto Bankitalia arrivare tardi: anche se su quella crisi intervenne poi la magistratura, rilevando illeciti penali anche nella comunicazione. Italease aveva come azionista di riferimento il Banco Popolare, il maggior istituto di una categoria alla quale Draghi, uscente, ha inviato un ultimo warning: “Alle Popolari quotate servono regole per un controllo più efficace dell’operato degli amministratori, un maggiore coinvolgimento degli azionisti in assemblea anche mediante deleghe. Un intervento legislativo è necessario; le modifiche statutarie, che pure abbiamo sollecitato, non possono essere risolutive”.

Nel mirino, in concreto, c’è la Popolare di Milano, con il cui “autogoverno” dei dipendenti-soci la Banca d’Italia ha ingaggiato un match prevedibilmente risolutivo. Si è avuta in ogni caso conferma che al Governatore il credito cooperativo – grande e piccolo – non è mai andato a genio: anche il riferimento alla necessità per le “piccole banche” di dotarsi di sistemi di controllo più evoluti è sembrato guardare alle Bcc, che hanno sofferto negli ultimi tempi di qualche singola crisi non fisiologica.

Una buona governance incentiva gli investitori a fornire capitale”, ha chiosato Draghi, con un riferimento aperto agli aumenti di capitale (11 miliardi annunciati negli ultimi mesi) da parte delle grandi banche italiane (Bpm compresa): il Governatore ha così potuto auto-compiacersi della risposta pronta all’appello perentorio lanciato tre mesi fa al Forex sulla necessità – per il sistema – di presentarsi con le carte in regola all’appuntamento di Basilea 3 e ai nuovi stress test che verranno effettuati dall’Eba, la nuova authority bancaria Ue (un appello, in ogni caso, raccolto da tutti salvo che da UniCredit; e un rigore su cui, pochi giorni fa, il Financial Times ha sollevato qualche cautela generale, facendo eco soprattutto alle banche della City).

Gli aumenti di capitale di Intesa Sanpaolo e Montepaschi saranno sostenuti soprattutto dalle Fondazioni bancarie. Anche a esse Draghi ha lasciato soprattutto impegni: “La qualità degli assetti di governo e controllo delle Fondazioni, i presidi di indipendenza e di prevenzione dei conflitti di interesse, l’efficienza e la trasparenza della gestione finanziaria sono cruciali per conciliare la loro presenza nel capitale delle banche con l’autonomia gestionale di queste”. Il presidente dell’Acri, Giuseppe Guzzetti, ha colto correttamente il passaggio in termini di apprezzamento, sebbene il Governatore sia stato forse un po’ troppo sintetico.

Da un lato, non ha potuto distinguere le Fondazioni che stanno resistendo più del dovuto nel ruolo di azioniste di controllo (ad esempio, la Montepaschi), anche se ha dovuto riconoscere che le Fondazioni sono state pronte all’appello degli aumenti di capitale. Probabilmente, all’addio e all’indomani della sentenza Fazio, il Governatore ha voluto chiudere i conti con una fase: quella della scalata Generali del 2003 e quella delle scalate del 2005, in cui alcune Fondazioni avevano avuto un ruolo.