Bastava leggere la prima pagina de Il Sole 24 Ore di ieri per capire quale aria tiri attorno all’assemblea-verità che la Banca Popolare di Milano ha messo in calendario per sabato prossimo. «La Bpm chiama azionisti e clienti alla prova-fedeltà del maxi-aumento»: il titolo della Lettera all’investitore anticipava un’analisi apparentemente tecnica della ricapitalizzazione da 1,2 miliardi all’ordine del giorno dell’assemblea. Ma oltre la metà dell’articolo ha coperto di dura ironia quegli “amici della Bpm” che hanno riportato pesanti perdite sulle obbligazioni ibride “convertende” che la banca ha fatto sottoscrivere a 15mila clienti (in parte anche soci e soci-dipendenti).

L’operazione fu varata due anni fa per rafforzare il patrimonio della banca nell’immediato dopo-crisi globale, affiancandola all’immissione temporanea di sostegni pubblici via Tremonti-bond. Ma la cattiva gestione del “bond convertendo” (sabato l’assemblea delibererà tra l’altro una sorta di “transazione” con gli obbligazionisti, anticipando la conversione e tagliandone di due terzi il prezzo) ha provocato la reazione di entrambe la authority di vigilanza: la Consob (che ha multato l’istituto presieduto da Massimo Ponzellini) e la stessa Banca d’Italia.

Quest’ultima, alla vigilia dell’abbandono del Governatore Mario Draghi, ha imposto la ricapitalizzazione e il ricambio alla direzione generale (Enzo Chiesa al posto di Fiorenzo Dalu). E nel verbale dell’ultima ispezione ha ancora una volta messa sotto accusa un’organizzazione troppo avviluppata sui dipendenti-soci: anche nella gestione del personale e in quella – delicatissima – della concessione dei crediti.

Una governance e un’organizzazione manageriale, quella Bpm, sgradita da decenni a via Nazionale, che la giudica troppo rischiosa sul piano dei conflitti d’interesse e della stabilità interna di una banca importante. Il ricambio frequente di presidenti e direttori generali sarebbe il sintomo più evidente di un’instabilità non fisiologica. La nomina del consiglio resta in effetti per larga parte prerogativa degli equilibri interni fra sigle sindacali confederali e autonome. E già all’inizio degli anni ‘90 la Bpm inciampò in troppo larghi finanziamenti al gruppo Ferfin, poi finito in bancarotta.

Poco conta che oggi i “mali” della Bpm (veri o presunti, nascosti o sbandierati) vengano attribuiti a una pretesa vicinanza di Ponzellini alla Lega Nord e al ministro dell’Economia Giulio Tremonti. Le sanzioni di Bankitalia hanno offerto il destro – sempre sulla prima del Sole di ieri – anche per un corsivo scritto oltre Atlantico dall’ultra-mercatista Luigi Zingales, con un titolo poco equivocabile: “Una cattiva Popolare è un danno al sistema”. Cioè: la Bpm è una “mela marcia” che va eliminata in fretta. E non è affatto un caso che l’ultima parola dell’ennesima intemerata di Zingales contro tutto ciò che non è “capitalismo finanziario di mercato” – anzitutto le banche cooperative – sia «Fazio», il cognome del Governatore che nel 2005 provò a difendere l’AntonVeneta (una doppia ex-Popolare), facendo leva sulla Popolare di Lodi contro l’Abn Amro, e la Bnl utilizzando prevalentemente Unipol, la holding bancassicurativa della Lega coop. Il “caso Bpm” è diventato quindi subito il pretesto per riprendere vecchie crociate: d’ideologia e di schieramento.

Non stupisce, quindi, che negli ultimi giorni sia balenato per una Bpm “in crisi” il presunto interesse di Bnp Paribas: il colosso francese cui, nello studio di Guido Rossi, in un pomeriggio venne venduta la Bnl. Per sancire il successo della “difesa mediatico-giudiziaria” di AntonVeneta, Bnl e Rcs contro i presunti “furbetti”; e anche per soddisfare l’apparato ideologico costruito ad hoc dagli economisti come Zingales: solo l’ingresso delle banche straniere “di mercato” avrebbe potuto “bonificare” un sistema creditizio italiano perennemente dipinto come borbonico, in ogni caso insopportabilmente popolato di Fondazioni, Popolari e Banche di credito cooperativo. Tutti mondi estranei al capitalismo globale e alle sue logiche speculative, nemiche del lungo periodo e della “creazione di valore” per tutti gli stakeholders di una banca (azionisti, ma anche dipendenti, clienti, istituzioni, ambiente socioeconomico allargato)

Sei anni dopo la controprova empirica dice che la Bnl svenduta a Bnp Paribas non è diventata né un campione di redditività, né un apostolo di efficienza verso il cliente: rimane una normale banca italiana posta, però, al servizio di una banca francese, la quale nel frattempo è stata aiutata dallo Stato a sopravvivere nel dopo-Lehman. Con AntonVeneta è andata anche peggio: Abn Amro, per completare la sua Opa, dovette farsi supportare dal gigante spagnolo Santander e poi crollò subito nella prima fase della crisi. E Santander non si fece scappare l’occasione di “restituire” AntonVeneta all’Azienda-Italia a caro prezzo: dissanguando il Montepaschi (il grande gruppo italiano oggi forse più fragile e bisognoso di nuovi capitali).

In ogni caso, due grandi banche francesi (Bnp e Credit Agricole) sono oggi concorrenti con più di mille sportelli in casa dei maggiori gruppi italiani: il contrario, ovviamente, non avviene e non è neppure immaginabile, mentre il sistema-Italia sta consegnando a Parigi anche Edison e Parmalat. Dopo Alitalia e molta grande distribuzione commerciale; e dopo aver rischiato di consegnare Mediobanca e le Assicurazioni Generali.

Nessuna delle grandi banche italiane (neppure Mps e Bpm) è comunque fallita durante la crisi o ha dovuto essere nazionalizzata per sopravvivere (come le banche inglesi). Eppure per la Popolare di Milano è stato evocato perfino il commissariamento e – una volta di più – la Borsa gioca: una voce su Bnp ha fatto recuperare del 7% in poche ore un titolo depresso. E una Bpm che in Borsa vale meno di un miliardo di euro può fare effettivamente gola a molti: a cominciare da quella stessa Mediobanca, la quale si è offerta di garantire la maxi-ricapitalizzazione.

Piazzetta Cuccia – ora apparentemente “indipendente” e affidata ai manager Renato Pagliaro e Alberto Nagel – ha già sostenuto la ripatrimonializzazione del Banco Popolare, che tuttavia è riuscito a raccogliere per intero due miliardi presso i suoi soci-clienti e non si è ritrovato nell’azionariato una Mediobanca con un pacchetto ingombrante di qualche punto percentuale. È vero – nel Banco e in prospettiva in Bpm – quel pacchetto non avrebbe potuto contare come in una società per azioni, ma il suo peso “capitario” non sarebbe stato diverso da quello di un micro-azionista con qualche centinaio di azioni. L’effettivo nodo del contendere resta infatti questo: il destino dell’ordinamento cooperativo bancario, che la crociata degli economisti-mercatisti non cessa di voler scardinare, assoggettandolo al modello unico della Spa contendibile in Borsa a suon di Opa.

Che il regime delle Popolari – che sono ormai grandi banche quotate in Borsa – meriti un’attenzione evolutiva lo riconosce il comparto stesso: l’AssoPopolari, presieduta dal veronese Carlo Fratta Pasini, ha presentato una proposta di autoriforma graduale, basata sull’aumento dello spazio lasciato agli investitori istituzionali (fino all’1% o anche al 3%) e su meccanismi più flessibili della raccolta deleghe, che renderebbero più vivace la democrazia societaria in assemblea, pur all’interno dello specifico socio-economico del grande credito cooperativo.

Non è un caso che Ponzellini si sia subito detto d’accordo con una “exit strategy” che potrebbe rivelarsi valida anche per i dipendenti-soci della Bpm, per i quali suona certamente una duplice campana riformista. Da un lato la cadenza periodica degli “incidenti di percorso” e il “tourbillon” di presidenti e manager legato all’endemica conflittualità sindacale tra dipendenti-soci non sembrano più compatibili con la status di una grande banca nel dopo-crisi. Il pressing sui grandi banchieri quando questi sfuggono alle “buone pratiche” di conduzione di un’azienda di credito tocca anche i “piccoli bancari” quando essi recitano da banchieri: non c’è differenza tra un mega-bonus e centinaia di piccoli aumenti di stipendio o di “premi ad personam” non giustificati.

Idem sul versante dell’attività sul mercato: una “buona” cooperativa di territorio fa “buon” credito alle “buone” imprese, intermediando il “buon” risparmio delle famiglie. Se gli standard sono diversi (non necessariamente per le influenze politiche strumentalmente denunciate dagli Zingales di turno) il risultato non è diverso da quello prodotto da un gigante di Wall Street che vende prestiti insostenibili e li scarica subito via derivati su risparmiatori ignari.

Questo premesso – ma non vale solo per loro – i dipendenti-soci della Bpm devono e possono proteggere una volta di più – forse l’ultima volta – la “loro” banca e l’ordinamento delle Popolari che da più di un secolo riesce a correre con l’economia dei territori europei. Le vie di uscita – non di fuga – appaiono due, non incompatibili. La prima è la ripresa di un progetto di fusione con un’altra Popolare del Nord ormai cresciuta: quella dell’Emilia Romagna, guidata oggi da Fabrizio Viola, già direttore generale della Bpm. Una grande operazione strategica rilancerebbe una sfida: far progredire la Popolare di Milano in una “nuova autonomia”, senza rinunciare alla fisionomia sua propria e di un pezzo vitale di Azienda-Italia.

In quest’operazione potrebbe innestarsi un secondo momento di sviluppo: il rilancio di una partnership con il Credit Mutuel, grande network cooperativo francese, già chiamato dall’allora presidente Bpm Roberto Mazzotta. La tradizione europea della Popolari, se c’è, deve battere un colpo: e affermare il suo modello, la sua via all’efficienza-efficacia sul mercato bancario.

L’internazionalizzazione, per le Popolari, non può invece essere – in via obbligata – quella dei raid di Abn Amro, Bnp, Bbva, Santander, pilotati dagli squilli di tromba del Financial Times e guidati della solita Goldman Sachs. È su questo piano che la resistenza offerta dal modello cooperativo va difesa: è vero che qualcuno potrebbe lanciare un’Opa al 100% su Bpm (si è parlato anche dell’ex amministratore delegato di Capitalia, Matteo Arpe, oggi gestore di private equity), ma non è affatto un vecchio e fastidioso impiccio dover passare dall’assemblea – cioè da molte decine di migliaia di piccoli soci – per cambiare lo statuto e assumere effettivamente il controllo della banca.

E Mediobanca? In sé i tentativi di Piazzetta Cuccia di agganciarsi a grandi reti bancarie territoriali ha una logica industriale: la provvista dell’istituto non può basarsi solo su quella (pur innovativa) di CheBanca!. E una storica banca d’affari – sempre più proiettata sulle medie imprese italiane – può avere la necessità strategica di raggiungere la propria clientela attraverso network qualificati. Nessuno dimentica che – sottotraccia – Mediobanca seguì attentamente la traiettoria della banca Popolare di Lodi (poi fatta confluire nella Verona-Novara) e la stessa parabola di Italease, che proprio Piazzetta Cuccia aveva inizialmente portato in Borsa.

Perfino i rapporti tra Mediobanca e la stessa Bper sono buoni: fu l’ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga – amico personale di Enrico Cuccia e Vincenzo Maranghi – a favorire l’aggancio del Banco di Sardegna all’Emilia-Romagna. Però ora conta l’assemblea di sabato e quanto i dipendenti-soci della Bpm diranno a se stessi e al mercato, come lo diranno, come lo realizzeranno. E a chi affideranno la guida di garanzia del loro specifico “new normal”.