L’assemblea della Banca Popolare di Milano ha bocciato compatta la richiesta – formulata dalla Vigilanza della Banca d’Italia – di aprire la governance societaria attraverso l’aumento da tre a cinque delle deleghe portabili da un socio all’assise generale. Non è del tutto casuale che l’ennesimo “no” del Fort Alamo dei dipendenti-soci di Piazza Meda sia giunto nei giorni di virtuale “sede vacante” in Via Nazionale.

Il Governatore Mario Draghi sta preparando le valige per Francoforte. E proprio al vertice parigino che ha incoronato il banchiere centrale italiano alla Bce, il premier Silvio Berlusconi ha stilato la terna dei candidati successori di Draghi: il direttore generale della stessa Banca d’Italia, Fabrizio Saccomanni; il direttore generale del Tesoro, Vittorio Grilli; il membro dell’esecutivo Bce, Lorenzo Bini Smaghi, che, dopo qualche resistenza, ha annunciato l’intenzione di dimettersi dall’Eurotower per far posto a un esponente francese, dopo il cambio della guardia Trichet-Draghi.

Chi sarà il nuovo Governatore? O forse meglio: di quale Governatore c’è bisogno oggi a Palazzo Koch? La risposta – ruvida, “politicamente scorretta” – dell’assemblea Bpm dice forse di più delle prese di posizione di rito. Prima fra tutte quella di Francesco Giavazzi, che – non dissimilmente da Eugenio Scalfari – ha già recitato più volte la litania laica sull’autonomia semi-sacrale di Bankitalia, respingendo le ipotesi Grilli e Bini Smaghi in quanto presunti “infiltrati della politica”, nella fattispecie del ministro dell’Economia, Giulio Tremonti.

Giavazzi e Scalfari sono solo i più noti tra quanti – chiedendo la promozione di Saccomanni per acclamazione élitista e autoreferenziale – fingono di dimenticare che sia Grilli che Bini Smaghi sono prodotti – brillanti e ben testati sul mercato dei tecnocrati – del vivaio di Via Nazionale: mentre Draghi, prima di diventare Governatore, non aveva mai lavorato un solo giorno in Bankitalia, né aveva affondato le mani nella routine quotidiana, a cominciare dalla vigilanza bancaria.

Come e più di Grilli e Bini Smaghi, Draghi aveva invece lavorato a lungo al servizio dei “politici” del Tesoro: anche lui, in parte, con Tremonti ministro, anche se l’epoca più felice (con Carlo Azeglio Ciampi in Via XX Settembre) l’aveva visto operare da venditore dei gioielli italiani (da Credit a Comit e a Bnl, dall’Imi all’Ina a Telecom). Fu in quel periodo – aperto dal celebre party della Goldman Sachs sul panfilo Britannia – che Draghi accrebbe via via la sua credibilità presso la grande finanza globale: quella che – dopo un triennio finale alla Goldman Sachs a Londra – installò Draghi in Via Nazionale, dopo lo scontro frontale tra la City e la Banca d’Italia di Antonio Fazio.

Quest’ultimo – promosso Governatore da Ciampi premier dopo un’intera carriera interna all’istituto -, forte della sua autonomia, aveva difeso le banche italiane dall’offensiva condotta a colpi di Opa contro le banche italiane (tra queste c’era la Bnl sotto attacco del Bbva, il cui advisor era la Goldman di Draghi, che era stato il venditore del 10% di Bnl al stesso gruppo spagnolo). Sotto pressione, Fazio usò ogni mezzo, anche non convenzionale, tanto de meritare poche settimane fa una condanna penale che continuerà peraltro a far discutere all’infinito.

Tuttavia, dopo il fallimento di Lehman Brothers, di Abn Amro e delle Casse spagnole, dopo i mille miliardi di dollari di salvataggi pubblici per le banche di mezzo mondo (in testa quelle britanniche), una dura condanna per “omessa vigilanza” a Fazio per le vicende del 2005 su AntonVeneta e Bnl come minimo induce al sorriso. Anche perché i Giavazzi e gli Scalfari e le lobby laiche condussero contro Fazio (cattolico “anomalo” in Via Nazionale) una campagna all’ultimo sangue, ideologica e d’interessi: dimenticandosi senza problemi che Fazio era considerato – con Tommaso Padoa Schioppa – il miglior allievo della scuola interna. Così come oggi chiudono un occhio sul fatto che Saccomanni in Bankitalia sia stato vicino anche a Lamberto Dini, direttore generale paracadutato da Giulio Andreotti, che nel suo governo aveva come ministro del Tesoro il super-Governatore emerito Guido Carli (a proposito: Carli nel 1960 passò direttamente dalla poltrona di ministro del Commercio estero a quella di Governatore).

Nell’estate 2011, in ogni caso, molte categorie dialettiche sono divenute logore: «tecnici “buoni” contro politici “cattivi”»; «tecnici “puri” contro tecnici “impuri”»; «mercato “buono” contro Stato “cattivo”», «banche italiane “cattive” contro banche estere “buone”», «Borsa “buona” contro banche “cattive“ nel finanziamento dell’impresa», eccetera. La Banca Popolare di Milano presenta – non da oggi – dei profili problematici per la governance interna: ma tanto per cominciare Draghi, in cinque anni, non solo non li ha risolti, ma non li ha neppure affrontati (troppo impegnato al vertice del Financial Stabilty Board). Nel frattempo, la stessa Bpm non è fallita, il ricorso ai Tremonti-bond è stato limitato e in fondo non era indispensabile: centinaia di altre banche, altrove, hanno dato a banchieri centrali, azionisti, dipendenti, clienti, contribuenti problemi infinitamente maggiori (ed erano spesso grandi public company quotate, non cooperative). La Goldman Sachs, si è appreso di recente, aveva chiesto alla Libia di Gheddafi i miliardi di dollari poi forniti da Warren Buffett.

Il titolo Bpm ha perduto molto del valore in Borsa? Ma è questo un problema di cui si deve occupare una banca centrale? In ogni caso, quello della Popolare di Milano non è un caso unico, anzi: i tassi-zero, le sofferenze negli attivi, la recessione, l’emergenza-Grecia e le ganasce della nuova vigilanza prudenziale voluta da Draghi (Basilea 3) mordono ovunque, dagli Usa alla Svizzera (e chi fa utili lo fa rimettendo in moto la giostra della finanza strutturata). In Italia è stato, infine, proprio il Governatore “primo della classe” a volere una ricapitalizzazione massiccia del sistema bancario (e anche Bpm ha aderito alla pesante “moral suasion”): i forti ribassi in Piazza Affari risentono anche degli aumenti di capitale imposti.

L’effetto diluitivo sui profitti attesi scontenta chiaramente gli investitori istituzionali: gli hedge fund del “mordi e fuggi”, i cacciatori di Opa (e anche su Bpm la girandola delle voci è già iniziata). Ma è colpa della Bpm e del suo modello cooperativo? E una vigilanza degna di questo nome deve sempre e solo limitarsi a “sanzionare” ex post, con il dubbio avallo dei manuali anglosassoni e con il puntuale applauso di “media” strutturalmente lontani dall’economia di territorio e ostili alle banche che reggono la recessione e sostengono le imprese diffuse?

Ecco, l’estensore di questa piccola nota, non ha un suo candidato per la successione a Draghi. Ha invece la convinzione che debba essere meno formalmente ideologico e meno sostanzialmente latitante del Governatore uscente. E che della tradizione interna della Banca d’Italia – che resta certamente un “patrimonio del Paese” – recuperi anche quello che il predecessore Fazio (non diversamente da Ciampi, Baffi, Carli, Menichella ed Einaudi) non aveva certo trascurato: l’attenzione per l’Azienda Italia e per le sue banche. Tutte.