La crisi economica e l’impasse politica riaprono la stagione dei “manifesti”: anche sulla scia di un riassetto dello scacchiere politico e di scadenze elettorali forse non lontane. Il Presidente della Repubblica in persona ha dato la sua adesione a nove impegni elencati da Il Sole 24 Ore: meno tasse sulle imprese, acceleratore sulle liberalizzazioni e sulle privatizzazioni locali, taglio ai costi della politica.
Ma lo stesso Napolitano invita a guardarsi dai dibattiti “troppo generici”: il “manifesto” vero, in fondo, resta fatto dalle scelte del Governo in carica, partorite dal confronto parlamentare con l’opposizione. Dove non sempre contano i temi di merito: serve a poco discutere l’abolizione l’ordine degli avvocati se non si affronta il problema di cosa fanno 250.000 avvocati in Italia, dell’auto-produzione di milioni di cause fasulle e del loro costo. Le “caste” non sono fatte solo di politici e funzionari pubblici.
Domani, a ogni modo, verrà srotolato un nuovo manifesto, dal titolo molto impegnativo: “Per la buona politica e per il bene comune”. Lo promuove il Forum delle persone e delle associazioni di ispirazione cattolica, sotto l’occhio attento del Vaticano. A Roma è annunciata l’adesione di Acli e Cisl, Confartigianato e Coldiretti, Mcl, Confcooperative, Cdo. Piccola imprenditorialità familiare, lavoro solidale e tutelato, impegno sociale: è la miscela classica della presenza pubblica dei cattolici, che ha orientato a lungo la politica del Paese.
I cattolici tra politica ed economia – dal “manifesto di Camaldoli” ai decenni repubblicani a guida democristiana – hanno prodotto di tutto: la migliore industria pubblica (a cominciare dall’Eni) e le peggiori politiche di sviluppo (a cominciare dalla Cassa del Mezzogiorno); una riforma fiscale pionieristica (Luigi Vanoni) e il degrado della finanza statale negli anni ‘70; una cultura bancaria realmente competitiva con quella anglosassone (la Cariplo di Giordano Dell’Amore fino a Intesa Sanpaolo, le banche popolari e il credito cooperativo) e l’autodistruzione del sistema creditizio al Sud; un’agricoltura capace di dare idee all’Europa (Albertino Marcora) e il crack Federconsorzi. “Programmazione economica” e nazionalizzazioni negli anni ‘60; ma anche dinamiche privatizzazioni locali per quarant’anni; centinaia di migliaia di micro-imprese vitali da un lato, Alfa Romeo e Parmalat dall’altro; difese corporative di retroguardia e welfare sussidiario d’avanguardia.
Vent’anni di globalizzazione, mercatizzazione e finanziarizzazione dell’economia sembravano aver comunque superato quanto meno una grande fase storica nella quale i cattolici in politica ed economia avevano creato modelli, costruito esperienze, mosso leve. Da dove ricominciano oggi? Cosa significa – oggi – camminare tra Stato, sovra-Stati, società e mercati richiamandosi alla “Dottrina sociale della Chiesa”? Sarà interessante ascoltare la prima uscita del Forum, leggerne il “manifesto” originale. Le attese – almeno per il giornalista economico – sono numerose.
La prima e principale è legata al magistero della “Caritas in veritate” – ma non solo – che ha definitivamente accreditato il valore della libertà e dell’iniziativa economica. L’impresa è il centro del “lavoro dell’uomo” e la sana competizione è il terreno di realizzazione e di verifica quotidiana di quell’impegno. Dopo la grande crisi del capitalismo finanziario, i cattolici hanno il diritto-dovere di promuovere e difendere l’imprenditorialità: che – al pari del “mercato” – è un grande “bene comune”.
In quanto tale non può essere né soppresso (com’è stato a lungo nei regimi sovietici), né oggetto di appropriazione indebita, di abuso privatizzatorio da parte dei cosiddetti “liberisti”, com’è stato in parte nell’ultimo ventennio. Naturalmente non sarà facile abbattare alcuni “mantra”: che, ad esempio, le cooperative non siano “vere” imprese, che le Fondazioni bancarie non possano essere buone azioniste di imprese bancarie e “imprese sociali” esse stesse; che le banche servano a investire in Borsa e non a far credito alle imprese; che i “quasi mercati” dei servizi offerti in sussidiarietà siano invariabilmente peggio dei grandi oligopoli privati.
Se “primum producere”, qual è il ruolo dello Stato fiscale? Il primato della redistribuzione è stato a lungo la bussola dei governanti “cattolici”, soprattutto nella lunghissima stagione del “centro-sinistra” seguita al boom. Il bilancio pubblico – sempre più allargato – è alla fine crollato su se stesso nello sforzo di equilibrare, integrare, “correggere” gli esiti dei mercati. Questi ultimi, d’altro canto, hanno mostrato tutta la loro instabilità e l’inefficienza concreta a “regolare” meriti e bisogni.
È in questo momento che la “cassetta degli attrezzi” dei cattolici può rivelarsi preziosa, se autentica: le risorse da “rimettere in circolo” non sono più quelle del prelievo tributario diretto da trasformare in spesa pubblica diretta. L’assistenzialismo burocratico è stato archiviato con il ventesimo secolo.
Una famiglia “debole” non diventa “forte” con un sussidio: la si rafforza offrendo ai ragazzi di quella famiglia una scuola competitiva, immersa in un tessuto socio-economico che genera occupazione dall’imprenditorialità.