Il Sussidiario del 12 luglio ha ospitato alcune riflessioni sulla “lezione del ‘92” come precedente analitico per una forte pressione speculativa dei mercati sul Sistema-Italia, fronteggiata dal Governo con una manovra intermedia sui conti. Nei giorni successivi, il “paradigma ‘92” è entrato nel dibattito pubblico come sinonimo di “Mani Pulite”, sulla scia delle inchieste giudiziarie che hanno investito le principali forze politiche della maggioranza e dell’opposizione.

A cavallo tra finanza, politica e giustizia, la cronaca ha nel frattempo registrato anche un suicidio collegato a un dissesto finanziario (quello del gruppo San Raffaele). Ancora una volta la memoria è corsa a quasi vent’anni fa, cercando riferimenti, matrici interpretative: forse più nel luglio del ‘93 che in quello del ‘92. Il doppio suicidio di Gabriele Cagliari e Raul Gardini (e le circostanze delle fine di entrambi non sono mai state del tutto chiarite) rappresentò il vero acme di Tangentopoli.

Il crack del gruppo Ferruzzi – conclamato da poche settimane – aveva le sue radici nell’avventura Enimont, che a sua volta simboleggiò l’intreccio tra politica e affari, tra capitalismo privato e industria pubblica nella tarda Prima Repubblica, quella spazzata via dalle elezioni e dalle inchieste del ‘92. È un caso che Antonio Di Pietro abbia lasciato clamorosamente la toga durante un’udienza del processo Enimont?

Quello di Enimont non fu il solo grande crack dell’epoca e forse neppure il maggiore. Il dissesto più rilevante fu quello dell’Iri, la più grande delle holding pubbliche, la conglomerata-leader di un’Italia ancora a economia mista. Via Veneto finì in liquidazione e i suoi gioielli (dalle tre Bin a Telecom, a Finmeccanica, a Sme, ad Autostrade, ecc.) seguirono destini svariati lungo le vie delle privatizzazioni. Pagarono (in parte) gli spaventosi buchi lasciati nel tempo dalla siderurgia di Stato e dalle sue attività sorelle o cugine.

Tra queste c’era stata anche l’Alfa Romeo, che solo pochi anni prima era stata ceduta alla Fiat che non poteva accettare uno sbarco della Ford sulla penisola. Ma nel “’92 e seguenti” anche la Fiat non sfuggì a una doppia forca caudina: quella delle inchieste per tangenti, ma soprattutto quella dello squilibrio finanziario. Dovette intervenire Mediobanca a erogare un maxi-aumento di capitale, diventando per la prima volta azionista diretta.

La “finis Fiat”, in realtà, comincia allora: dieci anni prima della morte dell’Avvocato Agnelli, quasi vent’anni prima di Sergio Marchionne. Ma tra salvataggi bancari e Procure (e qualche volta carceri cautelari), in quei mesi, si dibattevano pressoché tutti i grandi nomi del capitalismo nazionale: da Carlo De Benedetti, patron di un’Olivetti ormai in disarmo, a Giancarlo Pesenti, a Salvatore Ligresti. Silvio Berlusconi stesso preparava la sua discesa in campo pressato più sul versante della finanza d’azienda che su quello politico-giudiziario: è agli annali che la Mediobanca di Enrico Cuccia impose a Comit e Credit di ridurre gli affidamenti al gruppo Fininvest e che la sola Banca di Roma di Cesare Geronzi mantenne ossigeno alle attività televisive del Cavaliere. Mediaset nasce a dicembre ‘93 e viene quotata in Borsa solo nel ‘96. Ma quanti crack grandi e piccoli disseminarono quei mesi, aprendo solchi profondi?

Del caso-apripista (Trevitex) si continua a parlare: il procuratore aggiunto di Milano Alfredo Robledo – implacabile accusatore delle banche per i miliardi di derivati venduti agli enti pubblici italiani – è salito alla ribalta per aver perseguito molti anni dopo le banche che avevano dapprima finanziato, poi salvato un oscuro gruppo tessile nato nel Nordest negli anni ‘80. Una piccola famiglia imprenditoriale (i Dalle Carbonare) era stata di fatto usata come veicolo per una campagna di acquisizioni a debito: regista era una banca svizzera e alcuni finanzieri italiani svelti nell’importare al di qua dell’Atlantico il grande gioco “a leva” di Wall Street.

L’idea di costruire un grande gruppo comprando velocemente aziende alla rinfusa non funzionò. Dopo decenni di fallimenti industriali causati da finanziamenti pubblici sbagliati (o peggio), fu la prima volta che l’Italia vide da vicino i problemi che l’allora giovane “finanza globale” poteva portare: con il private equity e le fusioni di Borsa, con l’ingegneria finanziaria e i “maquillage” di bilancio, con i banchieri che allentavano la vigilanza anti-rischio di fronte alla prospettiva degli “utili a brevissimo”. Eppure – allora come ora – fu proprio la saldezza del sistema bancario interno e dei circuiti finanziari domestici che resse alla fine l’urto delle crisi aziendali. E se oggi la Fiat, la Pirelli, l’Olivetti non ci sono più, è da quella fase che escono i nomi che oggi identificano il capitalismo imprenditoriale nazionale: da Diego Della Valle a Leonardo Del Vecchio, dalla famiglia Benetton a Francesco Gaetano Caltagirone.

Il gioco delle analogie e delle differenze, al solito, potrebbe proseguire all’infinito. Nei prossimi mesi, in ogni caso, il “gioco del ‘92” non potrà limitarsi a seguire la crisi dell’euro come un tempo osservavamo la lira; i bollettini delle Procure (le stesse di allora); l’impasse politica e il nuovo confronto sulle riforme istituzionali. Potrà essere utile leggere la cronaca finanziaria tenendo sotto mano l’archivio di un corposo passato prossimo.