Guido Rossi tuona su Il Sole 24 Ore contro «l’illimitata possibilità di accumulazione del denaro», trasformatasi «da potere sociale a potere politico». Denuncia «l’enorme quantità di moneta transitata dai mercati e dagli istituti finanziari, sia quelli regolamentati, sia quelli fuori d’ogni controllo, grazie alle ideologie della deregolamentazione».
E rimette in guardia, Rossi, l’opinione pubblica e la società civile dell’Ue sulla «totale indipendenza della Banca centrale europea: il suo ruolo rispetto al Parlamento europeo dovrebbe essere ridefinito, poiché la sua politica, finora quasi esclusivamente diretta al controllo dell’inflazione, ha comunque un peso politico di grande e crescente importanza per il suo controllo sul sistema bancario europeo».
Al Guido Rossi del 2011 – sempre più critico-apocalittico sulla finanza globale di mercato – vien continuamente voglia di chiedere lui dov’era negli ultimi trent’anni. Cosa pensava, diceva, scriveva, faceva, ad esempio, nel 1981, quando fu nominato presidente della Consob e si disse che lui rappresentava la nuova democrazia finanziaria, incaricata di abolire un vecchio capitalismo autarchico, bancocentrico, relazionale. Oppure quali abiti intellettuali (e politici) sfoggiava nel 1990, quando la nuova legge antitrust italiana – by Guido Rossi, senatore delle sinistra indipendente – fu correttamente ritenuta un testo-manifesto di un passaggio irreversibile al mercatismo, a un’economia “adulta” e universale, fatta di pari opportunità e pari responsabilità.
E nel 1997 non fu forse affidata a Rossi (da Romano Prodi, Carlo Azeglio Ciampi, Mario Draghi) la prima presidenza della Telecom privatizzata in public company? E che fine ha fatto quella Telecom? E nel 2005 il giurista-avvocato-filosofo non era forse l’eminenza grigia di Abn Amro (e della Procura di Milano) nel contrattacco “di mercato” all’Opa della Popolare di Lodi sull’AntonVeneta? Non fu forse nel suo studio che la Bnl fu venduta alla francese Bnp pur di non darla a Unipol?
Questo – forse troppo lungamente – premesso, il “caveat” rossiano sulla minaccia delle tecnocrazie bancarie alle democrazie politiche è azzeccato nel momento (e fa curiosamente il paio con il dibattito crescente sull’accettabilità del capitalismo anti-democratico in Cina). Al vertice Bce ha appena ricevuto la sua investitura proprio Draghi: il direttore generale del Tesoro italiano, massimo promotore delle privatizzazioni “di mercato”, da quelle bancarie a quella di Telecom Italia. E il suo passaggio alla Goldman Sachs – la “banca centrale del pianeta” – prima dell’approdo alla Banca d’Italia, prodromico al balzo in Bce, è simbolico di quella saldatura autoreferenziale tra banche centrali e banche “sistemiche” contro cui Rossi punta ora il dito accusatore.
Questa tecnostruttura recita un ruolo «sempre più politico e non può essere più, pur nella sua indipendenza, conflittuale con quello dei governi: almeno nelle democrazie costituzionali». Tuttavia sembra aver attraversato quasi indenne la Grande Crisi: tra qualche settimana saranno trascorsi tre anni dal fallimento della Lehman Brothers, Michale Douglas ha già interpretato il sequel di Wall Street, ma non si hanno notizie di seri provvedimenti giudiziari verso Dick Fuld, “il Coltello” che affondò Lehman, borse, banche, economie di mezzo mondo in un unico calderone scuro. Lo stesso che ribolle ancora della crisi greca.
Nel bailamme finanziario globale è andata di mezzo anche la Svizzera, in particolare la sua banca-Paese Ubs, uno dei forzieri del pianeta. E proprio nel triangolo Berna-Zurigo-Ginevra, nei giorni scorsi, è stato annunciato un passo clamoroso, forse finale nello sforzo di ripulire una patente ingiallita di “paradiso” della finanza globale: l’arruolamento di Axel Weber come futuro presidente della stessa Ubs. Fino a pochi mesi fa Weber, economista “prussiano” chiamato alla presidenza della Bundesbank, era preconizzato al vertice della stessa Bce, l’unica “presidenza d’Europa” cui la Germania fosse veramente interessata, sdegnando qualsiasi altra carica (presidenza dell’Ue, “Mr/Mrs Pesc”, ecc.). Invece, a dispetto di tutti i pronostici – e anche con sorpresa dei “fan” del cancelliere Angela Merkel – un giorno Weber ha rovesciato il tavolo: ha ritirato la propria candidatura, spianando la strada a Draghi.
Unica spiegazione ufficiosa: “Ho capito che la mia candidatura non era gradita a tutti”. Scilicet: “Il mio capo di governo mi ha comunicato che l’America, Wall Street, la City, perfino gli amici francesi, non mi vogliono alle Bce (e vogliono invece Draghi)”. Perché? È una storia lunga, anzi brevissima. Come è stato breve il passo successivo, in gusta coincidenza temporale con l’ascesa di Draghi alla Bce.
Ora sono già molti quelli che si stracciano le vesti nel vedere l’inflessibile past-president della Buba assumere la primazia di un’altra “banca centrale” globale: quella dei capitali “semi-legali” che da sempre hanno nella Svizzera la loro “stanza di compensazione”, il loro approdo in una baia che non è “offshore”, ma neppure “inshore”. Non è d’altronde svizzero-tedesco il discusso presidente della Deutsche Bank, Josef Ackermann, ufficioso gestore dell’intricata partita greca, tra debiti pubblici e bond bancari, tra Europa unita e Germania “uber alles”? Non è forse austro-tedesco Dieter Rampl, presidente di UniCredit, strattonata tra fondazioni italo-leghiste, fondi sovrani libici congelati, finanza bavarese?
Il predecessore della Merkel, Gerard Schroeder, non è forse oggi lo strapagato ambasciatore della russa Gazprom? E gli oligarchi russi nel gas non sono forse gli scomodi interlocutori strategici di Silvio Berlusconi (come del resto lo era il colonnello Gheddafi)? Tutto si tiene (o quasi) nel mondo sul quale Guido Rossi sparge esemplari lacrime di coccodrillo: prima vorace, poi pentito. Un mondo, comunque, in cui tutti i coccodrilli sembrano neri: anche la Germania “pentita”, che insedia in Svizzera il suo anti-Draghi. Uno “swap”, si direbbe nel gergo dei mercati: la forma più elementare di derivato.