La giornata di ieri, tra economia, mercati e istituzioni, ha fornito spunti interessanti su molti temi controversi. In ordine sparso e grezzo:
Tutta l’economia europea è in stagnazione: non solo quella italiana, che pure ha problemi propri di competitività industriale e di governance politica. E la stagnazione (forse premessa di una nuova fase recessiva “double dip”) è l’effetto della grave crisi finanziaria esplosa nel 2007 a Wall Street e nella City e malcurata, principalmente per le resistenze di un’industria finanziaria refrattaria a riforme e ridimensionamenti. Le perdite di prodotto, consumi, occupazione, risparmi, welfare, stabilità delle Borse e infine anche stabilità politico-sociale (come in Italia) restano effetti di quella crisi finanziaria e della recessione: non viceversa.
Tra le cause della non-crescita c’è un euro “forte”, che zavorra l’export dell’Eurozona, non un presunto, preteso euro “debole”. La Svizzera si sarebbe premurata di agganciare il suo “super-franco” a un euro ”abortito, senza futuro, morto e sepolto dalla crisi greca, ecc.”? La Cina vi investirebbe una parte sostanziosa delle sue riserve, anche solo per fare un po’ di svalutazione competitiva nei confronti dell’Azienda-Europa? È vero che l’euro “forte”, oltre a non essere una condizione favorevole per il ciclo, non è neppure il riflesso pieno di un’economia altrettanto “forte”. Ma sul piano politico (cioè di credibilità interna ed esterna) non è banale: gli Usa “declassati” – non solo su questo piano – stanno peggio dell’Europa. Appare più appannata la leadership di un pieno presidente “federale” come Barack Obama – impantanato al Congresso di Washington – di quella dei due leader europei Merkel e Sarkozy che ieri hanno ribadito la determinazione a “difendere l’euro” (meglio: “l’Eurozona”).
L’intervento della Bce a sostegno dei bond sovrani di Italia e Spagna è efficace nel brevissimo periodo, ma non fornisce una soluzione strutturale: esattamente come nel ‘92 la Banca d’Italia di Carlo Azeglio Ciampi bruciò inutilmente riserve valutarie in difesa della lira. Contro la finanza globalizzata – ancora prima che contro la “speculazione” in senso stretto – da tre decenni la partita è persa in partenza: le risorse a disposizione dei mercati che attaccano (o fuggono) sono enormemente superiori a quelle disponibili di una singola istituzione per la protezione. Questo conferma d’altronde che non esistono “commissari tecnici” in grado di sostituire “governanti politici” e tanto meno “società economiche”. I “sistemi-paese” hanno il dovere di provvedere a se stessi anzitutto perché nessun altro ha il potere – prima ancora che il diritto – di farlo per loro. Certamente non ce l’hanno i tecnocrati di una banca centrale. Quest’ultima, per funzionare, ha comunque bisogno di capitali forniti dai paesi membri stessi, cioè in ultima istanza ancora dai governi e dai loro elettori.
– Gli eurobond (la cui “necessità intrinseca” era stata prevista per tempo dal ministro italiano dell’Economia, Giulio Tremonti) non sono quindi più rifiutabili per principio da nessuna opinione pubblica: neppure quella tedesca (al di là delle comprensibili cautele diplomatiche del cancelliere Merkel) nel momento in cui all’euro alternativa non c’è. O meglio, come diceva Keynes del capitalismo e Churchill della democrazia, l’euro si è ormai consolidato come “la peggiore delle strutture economico-monetarie possibili, salvo tutte le altre”. Anche in questo campo, siamo nell’ambito dei fatti, che possono non piacere ma restano più forti dei giudizi. L’euro non è stato un errore: anzi, oggi è più forte perfino degli europei che ne farebbero a meno, siano essi greci sottoposti a una super-austerity, o tedeschi obbligati a salvare i greci, o italiani pressati dalla manovra di Ferragosto.
Certo, l’euro ha bisogno di una politica fiscale comune: a tappe più o meno serrate e faticose ci si arriverà. Gli eurobond (cioè una responsabilità politico-finanziaria comune sulla solvibilità dell’Eurozona) si annunciano come un passo strutturale in vista di un coordinamento regolato dei budget, che ieri Merkel e Sarkozy hanno più concretamente prospettato. La “legge del più forte” (del più sano, del più produttivo nelle imprese non meno che nelle università o nei sistemi infrastrutturali, del più competitivo sui mercati) conterà qui. Stavolta, a differenza di quando il vincolo euro era un traguardo, l’omogeneità e la differenza la farà la forza intrinseca di un Paese di restare dentro il format-euro, che a sua volta è un modo di affrontare la nuova competizione geopolitica. L’Italia non può più contare su un patrimonio da privatizzare, ma dentro l’euro il gioco si presenta – sulla carta – ad armi pari, se il sistema-Paese lo vuole. E fuori dall’euro non è immaginabile affrontare due situazioni egualmente problematiche come il declino degli Stati Uniti e l’ascesa definitiva di “semicontinenti” come Cina e Brasile.
– Le Borse azionarie sono volatili per lo più al ribasso, prendono atto – ovunque, non solo in Piazza Affari – che le economie del G7 sono a rischio di nuova recessione, che le imprese produrranno meni utili e investiranno di meno, che ci saranno più disoccupati, i consumatori spenderanno di meno, i contribuenti verseranno meno imposte e tasse. Le banche e le assicurazioni, in particolare sono deboli – anche al listino – perché i loro asset risentono della grave crisi finanziaria iniziata nel 2007. Quest’ultima è alla base dell’enorme peggioramento delle finanze pubbliche degli Stati Uniti e dell’Unione europea: i bilanci statali sono andati in pezzi per le necessità di salvare il sistema creditizio dal fallimento. Le finanze pubbliche italiane hanno sofferto meno di altre della crisi bancaria, più di altre per nodi strutturali e recessione
Questi sono alcuni fatti. Che non assolvono il governo Berlusconi-Tremonti-Bossi e più in generale l’assetto istituzionale del Paese, anzi: la manovra di Ferragosto – tardiva, limitata e squilibrata – ha confermato che, in settimane cruciali, l’Azienda-Italia ha pagato come minimo gravi distrazioni da parte dei suoi governanti, assorbiti da inchieste giudiziarie e vicende private. D’altro canto, coloro che aspirano a governare il Paese – sostituendosi democraticamente al governo in carica – commetterebbero un grosso errore pensando di utilizzare strumentalmente quanto sta avvenendo: ad esempio, “santificando” o “demonizzando“ il governatore della Banca d’Italia, presidente designato della Bce. Che non è stato in questi giorni né il “salvatore d’Italia”, né “l’agente al servizio della Germania”.
Gli va dato atto, invece, di aver sottoscritto la lettera della Bce in cui si suggerivano riforme radicali della flessibilità nel mercato del lavoro ea tagli alle retribuzioni dei dipendenti pubblici: si è comportato da “civil servant” a Francoforte, senza ammiccamenti da candidato “premier tecnico” a Roma. D’altro canto, non sfugge che al direttorio franco-tedesco, nuovamente alla guida dell’Europa, non sia dispiaciuto poter chiedere un comportamento del genere a un presidente entrante della Bce proveniente prima dalla Goldman Sachs e poi da un Paese debole dell’Europa periferica mediterranea.
Anche Draghi è, in fondo, un italiano che deve sperare nel riaggiustamento del suo Paese dentro l’Europa, per contare alla Bce più di quanto conti l’oscuro presidente belga dell’Unione.