Mario Draghi – quasi sicuramente suo malgrado – sta recitando in questi giorni la stessa parte interpretata dei primi anni ‘90: “facilitatore” della periodica rinegoziazione dell’iscrizione italiana all’Europa; dell’eterna verifica del confine sostanziale tra la sovranità nazionale e le diverse sovranità concorrenti (Unione europea, altri Stati, mercati, ecc.).



Vent’anni fa il Governatore oggi uscente era un tecnocrate di Stato fresco di nomina: chiamato alla direzione generale del Tesoro – non va mai dimenticato – dall’ultimo governo Andreotti. Un esecutivo ultra-politico: non per questo aveva rifiutato di servirci al Tesoro un personaggio del calibro di Guido Carli, il più grande predecessore di Draghi in Bankitalia e nel 1991 suo diretto superiore al ministero. La legge-madre sulle privatizzazioni (quelle bancarie, con la nascita delle Fondazioni) la produsse nei fatti Carli, assieme a Giuliano Amato. Così come il testo-padre delle liberalizzazioni economiche (l’istituzione dell’Antitrust in Italia) fu varato da quella legislatura, anche se a fregiarsene personalmente è sempre Guido Rossi, allora senatore della sinistra indipendente.



Certo, le finanze pubbliche italiane erano in stato disastroso: il rapporto debito/Pil (che oggi è risalito poco sopra il 120%) era al 107% alla fine del ‘91 e balzò poi a un picco del 123,8% a fine ‘94. Il totemico “spread” Btp-Bund nell’autunno del ’92 raggiunse un picco di 748 punti: la lunga uscita dagli choc petroliferi e il tramonto della Prima Repubblica avevano lasciato ferite profonde nei conti del Paese. Non era tuttavia compito di Draghi dettare i “saldi” delle manovre e delle finanziarie e neppure far quadrare tecnicamente disavanzi e debiti: per questo c’era il Ragioniere generale dello Stato.



Il neo-direttore generale del Tesoro, in quanto tale, si ritrovò a gestire lo “stato patrimoniale” della Repubblica: il collocamento sul mercato dei titoli del passivo (Bot, Btp, ecc.), ma soprattutto – quasi da subito – la vendita dei gioielli all’attivo. Un portafoglio ricco di mezza Azienda-Paese: le tre Bin dell’Iri più Imi, Bnl e Ina; Telecom, Eni, Enel, Autostrade. E una simbolica staffetta, poco dopo le elezioni del ‘92, segnò l’avvio della grande stagione delle privatizzazioni: Paolo Cirino Pomicino lasciava il ministero del Bilancio e una forte regia politica della de-statalizzazione delle grandi imprese strategiche; Draghi organizzava assieme alla Goldman Sachs il celebre incontro del “Britannia”, quando il menu delle privatizzazioni italiane venne di fatto consegnato alla regia dei mercati internazionali. Non casualmente il summit avvenne mentre il Paese era senza governo: Giuliano Amato giurò alcune settimane dopo e gli italiani conobbero la prima manovra “lacrime e sangue” indetta per preparare il sistema-Paese all’euro.

Un bilancio ragionevole delle privatizzazioni italiane non è ancora stato stilato: tra le rivendicazioni di merito di alcuni per aver fatto crescere Borse e concorrenza e le pesanti accuse di altri per presunte svendite e trasferimenti collusivi di monopoli dalla politica a capitalisti amici, spesso senza capitali. È vero, ad esempio, che le banche sono rimaste entro il dibattuto perimetro dell’“italianità” e sono divenute (anche grazie al ruolo della Fondazioni) un caso di successo: dopo varie fasi di concentrazione hanno retto meglio di altre in Europa la crisi del 2008. È indubitabile, in ogni caso, che il risanamento delle finanze pubbliche – principalmente sotto i governi Ciampi, Dini e Prodi – abbia contato in modo decisivo sulla possibilità di cedere quei “gioielli di famiglia”: sempre bussando al costoso oligopolio delle grandi banche d’affari internazionali. E almeno in un caso le privatizzazioni sono state in modo evidente la merce di scambio per entrare nel club dell’euro e per assecondare gli appetiti crescenti dei mercati: Telecom.

L’uscita della Stato dalla più importante azienda-Paese fu il vero perno dell’accordo siglato dal ministro degli Esteri Italiano, Beniamino Andreatta, e il commissario Ue all’antitrust, Karel Van Miert, che contestava i piani di stabilizzazione finanziaria dei grandi enti (Iri, Eni, Enel, Efim). L’Opv di Telecom, cioè la vendita integrale in Borsa del pacchetto di controllo, segnò una doppia rinuncia di sovranità da parte dello Stato italiano: rinuncia a spuntare un prezzo aggressivo per la maggioranza assoluta di un monopolista tlc già ben posizionato nello sviluppo della telefonia mobile; rinuncia (più importate) a fare di Telecom Italia un soggetto strategicamente attivo (come avrebbe potuto) sul futuro scacchiere globale del web e dei media.

Il “nocciolino” creato attorno dalla famiglia Agnelli fu subito spazzato via da un’Opa che era italiana solo nel volto di Roberto Colaninno: per il resto fu un mega-deal delle banche di Wall Street, che imbottirono l’azienda di debiti stessi dell’acquisizione e ne bloccarono ogni possibilità di sviluppo. Per non parlare del secondo player nazionale nel mobile (Omnitel) che fu venduto a Vodafone per finanziare l’Opa a leva di Olivetti su Telecom

Quattordici anni dopo, Draghi – il materiale venditore di Telecom ai mercati, con l’assistenza di Mediobanca – si trova ancora a fare faticosamente la spola tra l’Italia, l’Europa, i mercati. Si trova in una posizione fors’anche più complicata di quando entrò in Via XX Settembre: neo-presidente della Bce, proprio quando la banca centrale dell’euro ha deciso di sostenere sui mercati i Btp italiani, messi sotto tiro dalla speculazione. La sua vicenda personale di tecnocrate chiamato in una delle stanze dei bottoni globali è un caso a sé, soprattutto dopo l’improvviso ricambio del membro tedesco nell’esecutivo di Francoforte.

La Germania conferma di voler esercitare fino in fondo il suo ruolo sostanziale di locomotiva d’Europa e in attesa di riservarsi una guida forte dell’Ecofin a partire dal 2012, segnala chiaramente la volontà di ridimensionare l’indipendenza della Bce, ponendola sotto una più forte tutela politica, al massimo condivisa con la Francia. E una Germania decisa a difendere l’euro, non è una Germania amica dei paesi deboli dell’eurozona: Grecia, Spagna, Portogallo, Italia, Irlanda. Draghi – banchiere dell’Europa mediterranea, con un passato alla Goldman Sachs – entra quindi al piano nobile dell’Eurotower con un profilo più debole di quello che gli viene attribuito dai “media” anglosassoni.

Sta spendendo le ultime settimane da Governatore della Banca d’Italia dividendosi tra due debolezze: quella rinnovata del Paese che sta lasciando e quella nuova di una banca centrale che, in quanto supplente di una politica fiscale europea integrata, deve accettare il primato dei governi, anzi: del governo tedesco. La lettera co-firmata da Draghi al governo italiano per sollecitare interventi sul sistema pensionistico e sul mercato del lavoro ne è stata evento-annuncio.

Non sappiamo ancora, in concreto, quale sarà la misura e la forma della rinuncia di sovranità alla quale l’Italia dovrà quasi sicuramente sottostare per rimanere nell’euro (senza del resto avere alternative: come sta accadendo per la Grecia). È probabile che Draghi “il non italiano” (Financial Times) dovrà premere sul “suo” governo e sui “suoi” connazionali per una stagione di dura austerity. Come questa sarà coniugabile con la ricerca di “crescita” da parte delle imprese è al momento difficile prevedere.

La speranza, d’altro canto, è che siano limitati i sacrifici in termini di pezzi pregiati dell’Azienda-Italia: ad esempio, nel settore bancario (dove la forte sottovalutazione in Borsa di quasi tutti gli istituti potrebbe invogliare qualche raid), oppure in quelle delle utilities, soprattutto energetiche. È vero che qualche grande Comune ha cooperato male con alcune grandi banche internazionali sui derivati e forse meriterebbe di essere sanzionato sul mercato con la vendita di pacchetti azionari delle ex municipalizzate, ma non sarebbe nell’interesse collettivo. Così come una privatizzazione non ben costruita del BancoPosta. O “colpi di testa” su Eni ed Enel, concepiti nella “terra di nessuno” in cui pare essersi impantanata l’azione del governo e dell’opposizione.

Leggi anche

CESSIONE DEL 4% DI ENI?/ La privatizzazione di una azienda strategica che renderà l’Italia più poveraPRIVATIZZAZIONI POSTE?/ Cosa c'è dietro un'operazione in perdita per le casse dello StatoTRASPORTI/ Le liberalizzazioni mancanti e il ruolo dell'Art dopo 10 anni di attività