Purtroppo per l’Italia e per il suo governo, il declassamento del rating da parte di Standard & Poor’s non è né sorprendente, né scorretto (un primo campanello d’allarme era stato suonato nei giorni scorsi dall’agenzia concorrente Moody’s). Il downgrading non fa che certificare il giudizio dei mercati, che stamattina hanno ricollocato a 400 punti base lo spread del Btp sul Bund tedesco; e quello dell’Ocse, che recentemente ha stimato un possibile rosso (-0,1%) per il Pil italiano nel terzo trimestre e comunque non più di una stagnazione per la seconda metà del 2011.



L’indice puntato contro «la fragilità dell’azione di governo» – che tanto ha fatto infuriare la Presidenza del Consiglio italiana – non è meno assertivo di quello che, poche settimane fa, ha messo in crisi il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama. Ed è curioso che la reazione della Casa Bianca (l’apertura di un’inchiesta federale sull’operato di S&P’s nella stagione di “subprime”) sia stata in fondo anticipata da un piccolo ufficio giudiziario italiano – la Procura di Trani – che ha aperto un fascicolo contro le tre principali agenzie di rating per varie ipotesi di abuso di mercato contro l’immagine finanziaria dell’Italia.



Ma dopo questo ennesimo risveglio difficile tra Roma e Piazza Affari, c’è poco tempo per analisi strutturali o polemiche accademiche sul ruolo delle agenzie di rating e sui rapporti tra istituzioni di mercato (democrazia economica) e istituzioni pubbliche (democrazia politica). E mentre tutti cercano di capire “what next”, cosa succederà ora, è anzitutto interessante notare come – per una volta – l’intervento di S&P’s (“polizia privata” di Wall Street e della City) possa risultare non sgradito alla politica dell’Europa continentale e alla sua governance tedesco-centrica: in particolare, al cancelliere Angela Merkel che – anche ieri – ha dovuto nuovamente camminare su un crinale strettissimo.



Da un lato, ha avvertito – l’opinione pubblica interna tedesca e i paesi “falchi” dell’Europa del Nord – che l’euro non ha alternativa: che senza moneta unica il Vecchio Continente torna un’espressione geografica disseminata di muri diroccati. Dall’altro lato, tuttavia, il pressing tedesco sui “paesi periferici” dell’Eurozona sta raggiungendo il massimo livello: la Grecia è, in modo definitivo, di fronte alla sue responsabilità politico-finanziarie e l’Italia lo è nella stessa forma, anche se forse in misura meno drammatica (e con una differenza non piccola: la Grecia, in ipotesi estrema, può forse essere sganciata dall’euro senza traumi sostanziali per l’Europa, l’Italia no).

Detto questo, la manovra da 54 miliardi appena approvata dal Parlamento dopo il severo “do ut des” della Bce per il sostegno ai Btp sembra quasi non aver lasciato traccia né nel “sentiment” dei mercati, né in quello delle grandi cancellerie (per non parlare del “fronte interno”: la Confindustria ha chiesto ieri apertamente al premier-imprenditore di farsi da parte). Silvio Berlusconi, nella lettera a Il Foglio di sabato, ha cavalcato in anticipo la dietrologia complottista, denunciando «circoli anglofoni»: ma è davvero difficile, questa volta, dar torto a un’agenzia di rating che – come milioni di cittadini italiani – ha trascorso un agosto decisamente amaro. Ogni fine settimana l’onere del prelievo fiscale straordinario è stato spostato su spalle diverse, senza fornire mai l’impressione di voler rispettare vincoli sostanziali di equità, né di voler realizzare un passo forte nell’abbattere il debito pubblico dalla quota-allarme del 120% sul Pil.

Le stesse “riforme strutturali” suggerite dalla Bce per favorire sia l’assestamento del bilancio pubblico, sia la ripresa economica sono state gettate sul tavolo della politica economica in forma decisamente insoddisfacente. Il taglio (ritirato) degli anni di riscatto dalle pensioni di anzianità è stato il modo peggiore per affrontare il problema (reale) della sostenibilità previdenziale. La presunta “libertà di licenziare” lasciata al confronto tra imprese e sindacati ha avuto il sapore di una furbizia tattica, non quello di uno stimolo alto a un “patto sociale” tra generazioni di lavoratori o tra italiani di diverse regioni o settori. Da ultimo, l’estrema riluttanza a tagliare i cosiddetti “costi della politica” ha avuto come esito una manovra fatta per due terzi di nuove tasse, con un uso forzato dell’aumento dell’Iva, di per sé depressivo sui consumi e fonte di arrotondamenti inflazionistici dei prezzi.

D’altro canto, l’apparente “mission impossible” di associare rigore e stimoli alla crescita non è stata neppure affrontata. Eppure strumenti e idee non mancano: il lavoro iniziato da Giulio Tremonti sulla Cassa depositi e prestiti come motore di una nuova stagione di investimenti infrastrutturali ne era un esempio. Invece, oggi siamo probabilmente alla vigilia di una nuova stagione di privatizzazioni obbligate e selvagge, gestite dalle banche d’affari internazionali.

In fondo, il giudizio più inquietante per il governo in carica è stata l’apertura in rialzo di Piazza Affari: quasi un piccolo momento liberatorio da parte di un pezzo di Azienda-Italia che – come molti altri pezzi – pensa che “a Berlusconi qualcuno glielo deve dire”. Gliel’ha detto Standard & Poor’s: che certamente legge i giornali, dove certamente non dovrebbero finire direttamente le intercettazioni di telefonate fatte da un capo di governo appena due settimane prima. Ma ancora una volta non c’è più tempo per discutere le regole di una democrazia funzionante.

E poi S&P’s non ha detto che Berlusconi deve andarsene (così come non ha detto che Obama non dev’essere rieletto tra un anno): ha detto che l’Italia ha bisogno di un governo degno di questo nome. E il presidente Napolitano ripete – anche a chi continua a premere per esecutivi tecnici – che nella nostra democrazia parlamentare un governo resta in carica se ha una maggioranza. E anche Berlusconi ha l’opportunità di rimettersi a governare, avendone i numeri. Può farlo con il governo in carica o cambiando alcuni ministri.

 Standard & Poor’s, in fondo, gli ha fornito una chance finale: dimostrare che la sua capacità di governare prescinde dal pressing giudiziario e dal “gossip giornalistico”. Certo non è facile allorché tutto lo schieramento politico è sotto scacco da parte delle Procure: caso Tarantini, “caso Milanese”, “caso Penati” inchiesta P4. Ma – come sottolineava Winston Churchill – la democrazia resta sicuramente il peggiore dei sistemi politici, salvo tutti gli altri.