Aggiungiamo, a quanto scritto da Gianni Credit in questo articolo, che oggi, mercoledì 28 settembre 2011, il Presidente della Commissione europea, José Manuel Barroso, ha dichiarato dinanzi al Parlamento Ue a proposito dei richiami provenienti dagli Usa: “Mi sento ferito quando vedo alcuni che, con paternalismo, ci dicono cosa dobbiamo fare. Abbiamo seri problemi, ma non dobbiamo scusarci con nessuno per la nostra economia sociale”. Agli stati membri “chiedo uno scatto d’orgoglio. Siamo in grado di superare la crisi”, con i nostri mezzi, “dobbiamo essere fieri di essere europei?”. (La Redazione).

 

Commentato in chiave moralistica, l’attacco politico degli Stati Uniti a Eurolandia durante il G20 offrirebbe spunti e materiale per un’interminabile litania. «Attenti ai default a cascata nell’Eurozona», ha lamentato con accenti drammatici e quasi scandalizzati il segretario al Tesoro Usa, Tim Geithner: ma lui dov’era quando, tre anni fa, Lehman Brothers fu abbandonata al default provocando “a cascata” una crisi finanziaria sistemica e una recessione globale?

Il “buco” nominale di un ipotetico dissesto della Grecia sarebbe di 300 miliardi di euro; quello reale prodotto dal default Lehman (senza contare il precedente Bear Stearns) fu di 763 miliardi di dollari. E nel settembre 2008 Geithner era a capo della Fed di New York, che avrebbe dovuto prima vigilare su Wall Street, poi processarla e riformarla. Invece – ha lamentato da Chicago Luigi Zingales sulle colonne de Il Sole 24 Ore – l’Amministrazione Obama ha tragicamente mancato una grande occasione, non affondando il bisturi nelle piaghe del sistema bancario, nelle crepe della vigilanza, nei conflitti delle agenzie di rating e in molto altro.

Due mesi dopo l’11 settembre – ha ricordato Zingales – i marines erano in Afghanistan, “giusto o sbagliato” che fosse, e meno di due anni dopo entravano a Baghdad e scacciavano Saddam, prima di catturarlo e impiccarlo secondo le più ataviche usanze del Far West. Oppure, quando lo Shuttle Challenger esplose al decollo, sette mesi dopo tutti gli americani seppero cos’era successo: glielo spiegò in tv un Nobel per la fisica incaricato dal Presidente.

Invece, sono passati più di mille giorni dal crac Lehman e – anzitutto – l’ex grande capo di Lehman, Dick Fuld, non è mai stato neppure seriamente interrogato da una procura di Manhattan: è a piede libero, quasi sicuramente ci resterà, probabilmente ha ripreso a lavorare in segreto, non è detto che il suo patrimonio personale venga realmente scovato e intaccato dai liquidatori di Lehman. E non sappiamo molto di più – commenta amaramente Zingales – su come la crisi è nata e si è propagata da quando, nel 2006, il presidente George Bush chiamò al Tesoro Usa l’allora presidente di Goldman Sachs, Hank Paulson.

Nel frattempo, è vero, al di qua dell’Atlantico i conti pubblici della Grecia si sono rivelati falsi: ma quasi sicuramente in seguito a un’operazione di finanza derivata gestita dalla stessa Goldman nel 2001. E gli stessi Stati Uniti hanno sofferto uno storico declassamento del rating sovrano: il bilancio federale aveva raggiunto i limiti di sostenibilità e le risse parlamentari tra Democratici e Repubblicani – quasi all’inizio dell’anno elettorale per la Casa Bianca – hanno impedito qualsiasi manovra strutturale. Per non parlare dei singoli Stati federati: la California (paragonabile all’Italia) e l’Illinois (la patria di Obama) sono sull’orlo del default. 

La Fed, infine, sta reiteratamente inondando di liquidità i mercati, con buona probabilità di continuare a creare non ripresa, ma soprattutto inflazione, di drogare i mercati con nuova speculazione (anche quella contro i titoli sovrani europei), di tenere svalutato il dollaro, come avrebbe fatto con la lira un governicchio italiano premuto dagli industriali per guadagnare qualche mese di export, magari subito pagato dal Paese con una salatissima bolletta petrolifera.

Ma il moralismo contro l’ipocrisia serve a poco, durante le fasi di grande aggiustamento geo-politico: tanto più che a muoversi come una belva ferita – o quanto meno indebolita – è la declinante potenza egemone del pianeta, abituata da più di sessant’anni a far valere i propri interessi anche attraverso il dollaro. L’impegno più arduo – per l’Europa – è in ogni caso realizzare tutte le conseguenze della perdita di centralità dell’America: come ai tempi del confronto con il blocco sovietico.

L’Europa “dell’euro”, del resto, decolla non per caso in coincidenza con la caduta dei Muri e con l’affermazione di una globalizzazione “multipolare”, popolata da “Cindia” e dalla nuova Russia. È un mondo in cui rischi e opportunità, poteri e responsabilità sono da vent’ani in fase di tumultuoso rimescolamento. Anche il lungo e apparentemente drammatico test della crisi greca non è tecnico, ma politico. La misura del rigore fiscale a difesa dell’euro – anche quando la recessione solleciterebbe misure espansive come quelle adottate dagli Usa – è anzitutto una sfida interna tra i paesi membri e tra i governi e i loro elettorati.

A lato c’è il confronto con i mercati e con gli altri soggetti geo-economici planetari. Sotto questo profilo è ipocrita accusare l’Europa di scarsa efficienza politica: l’efficientissima democrazia americana non ha saputo prevenire né il crack di Wall Street, né il declassamento dalla “tripla A”. Nel Vecchio continente è invece in corso un confronto democratico su chi debba pagare “nel durante” la crisi greca: anzitutto i greci stessi, poi – in chiave di riduzione del rischio futuro – i paesi più deboli dell’Eurozona, poi anche – in chiave di solidarietà e di “premio di leadership” – i paesi trainanti.

Se non c’è differenza sostanziale tra la pretesa statunitense di scaricare sempre all’esterno i propri squilibri e quella dei paesi della “core Europe” di imporre ai paesi periferici una più stretta disciplina fiscale, è vero che il riequilibrio in Eurolandia è oggetto di confronto politico, non delegato alle tecnocrazie, alle banche centrali, ai mercati. La “democrazia 2.0” ha un costo: dipende da come lo si sostiene e lo si valorizza. Quella americana ha demandato alle banche d’affari e a una “bolla immobiliare” il sostegno all’economia dopo l’11 settembre. L’Europa – se ha avuto una colpa – è quella di aver partecipato in parte a questo gioco.

Ora anche l’Italia, certamente, è a un bivio: ha un debito accumulato che zavorra i parametri vitali dell’Azienda Paese. Può e deve farvi fronte in molti modi: in questa nota settimanale si è, ad esempio, già sottolineato come la scorciatoia di altre privatizzazioni “all’incanto” sarebbe pericolosa, così come la mancata difesa di un sistema bancario che vale molto più di quanto dicano le Borse.

Un tempo – neppure all’epoca dell’ormai proverbiale 1992 – non c’era bisogno di scegliere tra Europa e America o di fare i conti con la Cina. Oggi sì: la fatica maggiore è questa e nessuno può decidere per noi.