Quest’anno Cernobbio ha fatto poco titolo: ma anche l’“Uomo del Lago” – al pari del suo gemello alpino di Davos – è un po’ a corto di idee e credibilità, a trent’anni ormai suonati dall’ascesa al potere della Thatcher e di Reagan e a più di mille giorni dal fallimento di Lehman Brothers. Ieri mattina i titoli erano tutti di rito per il video-messaggio di Giorgio Napolitano: un appello a far presto con la manovra, oggettivamente lontano, tuttavia, dall’impegno dell’orazione civile di due settimane fa al Meeting di Rimini. E il dibattito del “carro di Tespi” ospitato per l’occasione a Villa D’Este non ha potuto che essere lo specchio di un’economia globale nella quale i banchieri e gli economisti loro consiglieri appaiono sempre più impotenti. Gli stimoli monetari alimentano la speculazione ma non riaccendono la crescita. I governi sono sotto pressione per riequilibrare i conti pubblici, ma devono rispondere a elettorati schiacciati dalla recessione e sempre meno disposti a pagare con l’austerity il crack della finanza globale. Neppure il ritorno a vecchie ricette keynesiane, d’altronde, sembra garantire il rilancio dell’economia, mentre cresce l’attesa per il super-piano che Barack Obama annuncerà in settimana per riportare lavoro in America.
Nel pomeriggio domenicale – mentre a Cernobbio, Giulio Tremonti affrontava per onor di firma un dibattito sugli eurobond che (forse) verranno – non ha comunque sorpreso che i riflettori dei “media” si siano velocemente spostati sulla “terza manovra” messa in cantiere dal Governo in tre settimane. L’apertura alla possibilità di licenziare all’interno di accordi sindacali ha già arroventato l’opinione pubblica e il clima politico: al pari dei due interventi-chiave prima annunciati e poi ritirati (l’addizionale sui redditi alti e la stretta sulle pensioni di anzianità). Non è affatto certo che il virtuale superamento dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori resista a una nuova ondata di opposizione politico-sindacale (che registrerà un passaggio forte già domani, con lo sciopero generale indetto dalla Cgil).
Dalla manovra strettamente fiscale di Ferragosto, al tentativo di riforma previdenziale di una settimana dopo, fino all’ipotesi di riordino strutturale del mercato del lavoro, il governo Berlusconi ha comunque squadernato quasi l’intera agenda politico-economica.
Lo ha fatto in gran parte per il pressing della Bce, agenzia supplente di un’Unione europea attualmente ridotta a un incerto direttorio di fatto fra Germania e Francia. La lettera (tuttora non pubblica) inviata da Francoforte a Palazzo Chigi per garantire il sostegno ai titoli di Stato italiani sotto attacco sui mercati conteneva la richiesta di «riforme strutturali» – a fianco del rigore fiscale – per ridare elasticità al welfare e per rilanciare la crescita delle imprese attraverso una riduzione del costo del lavoro.
La risposta del governo italiano – incalzato da uno spread Btp-Bund che oscilla da un mese fra 250 e 400 punti – è stata nei fatti molto interlocutoria: forse proprio per il contesto eccezionale in cui le esigenze di correzione economica stanno maturando. Le mosse meno convincenti – almeno per ora – sono giunte dal versante fiscale. Che l’aumento dell’Iva sia stato tenuto di riserva come arma finale non ha stupito: avrebbe comunque probabili effetti collaterali depressivi e qualche problema di riscossione l’imposizione indiretta lo mantiene. Un aumento (ordinario o straordinario) della pressione sulle seconde case è stato probabilmente tenuto nel cassetto pensando anche agli enti locali, ancora in chiave di federalismo. Resta il fatto che l’addizionale fatta gravare – nella prima stesura della manovra – su lavoratori dipendenti ad alto reddito e sui professionisti onesti nelle dichiarazioni, ha mostrato scarsa autorevolezza politica: un intervento non diverso, nella sostanza, dal 6 per mille sui depositi bancari di Amato nel ’92 o dai più rozzi e antiquati aumenti su benzina e sigarette. Di più: si è trattato di un orientamento politicamente punitivo verso uno specifico segmento della “società economica” ritenuto non vicino allo schieramento di maggioranza.
Più interessante è stata senz’altra la ricaduta delle polemiche sull’addizionale: il “pacchetto” di inasprimento di lotta all’evasione, più orientato contro i ceti produttivi. Ma una qualche forma di prelievo patrimoniale – anche se non al livello di 3-400 miliardi ipotizzata da Alessandro Profumo, banchiere auto-candidato ministro – avrebbe segnalato determinazione, da parte del Governo, assai più che un nuovo elenco di adempimenti in dichiarazione o di misure mediatiche come la pubblicità online degli imponibili.
Se sotto i panni del premier-imprenditore spuntano le esitazioni di un premier semplicemente ricco e circondato da ricchi; se sotto l’abito del super-ministro dell’Economia batte ancora il cuore di un grande tributarista della Milano degli affari, ad avere un problema sono sia il Paese, sia la maggioranza di governo. Del resto se si è scomodato il Segretario di Stato vaticano, cardinale Bertone, contro gli appesantimenti fiscali immaginati per le cooperative, cioè centinaia di migliaia di micro-imprese diffuse sul territorio e senza fini di lucro, vuol dire che la mano del governo sulla tastiera economico-sociale del sistema-Paese si sta muovendo con poca sicurezza. Idem se proprio a Ferragosto Germania e Gran Bretagna siglano due accordi storici con la Svizzera sulla fiscalità e sulla trasparenza dei capitali esportati, mentre Roma è ancora impegnata nell’eterno assedio di San Marino.
Maggior serietà e decisione ha mostrato il tentativo di blitz sulle pensioni di anzianità: che ha tuttavia pagato l’effetto-emergenza (una riforma previdenziale necessita di preparazione e consenso) e – ancora una volta – scelte tecniche molto approssimative. Il periodo di leva è stato – per chi lo ha svolto – un anno di “lavoro effettivo”, mentre il riscatto degli anni di laurea (per di più sollecitato anche di recente da vari ministri del Lavoro) è costato “soldi effettivi” a decine di migliaia di italiani. Ma, più in generale, perché il Governo si è esposto al rischio di un dietrofront, poi puntualmente maturato? Forse per un sottile gioco politico contro i circoli tecnocratici che si riconoscono nel presidente entrante della Bce, Mario Draghi, co-firmatario della lettera-diktat da Francoforte? Qualche sospetto – neppure troppo dietrologico – circola: mentre Cernobbio ha nuovamente fornito una scena importante a Mario Monti, candidato “in pectore” di un governo istituzionale.
In fondo anche l’aver messo nero su bianco nell’articolato della manovra la “libertà di licenziare” può avere il sapore di una provocazione politica. Il governo italiano non ha paura di introdurre un cambiamento radicale – “liberista e liberale” – nell’Azienda-Italia alla ricerca di un’uscita dalla crisi. Da un lato è una rottura sollecitata da Draghi e Trichet, dall’altro è un’opzione non imposta per legge ma lasciata alla democrazia del confronto economico-sindacale.
Se la maggioranza degli italiani non la vuole, il messaggio è per il super-tecnocrate Draghi e per tutti suoi fan italiani. Se le parti sociali sui “nuovi licenziamenti” cominceranno subito ad azzuffarsi, vuol dire che il “tavolo di salute pubblica” anti-governativo annunciato lo scorso luglio da Confindustria, Abi, sindacati e altre organizzazioni imprenditoriali, era fragile e posticcio: nonostante l’attenzione del Quirinale. Ma se alla prova dei fatti l’azione sui costi del settore privato dell’economia si mostra difficile, poco o nulla il governo ha mostrato di voler fare davvero sui cosiddetti “costi della politica”: sul ridimensionamento di un apparato pubblico che un paese come l’Italia non può più mantenere.
Rimane comunque, infine, l’impressione che il confronto – politico e di idee – attorno alla “manovra d’agosto” non ne abbia affrontato il merito anzitutto per poca convinzione di principio sui dossier fatti mulinare. La responsabilità è anzitutto e soprattutto di un governo in carica, ma non solo. In settimana Obama proverà a convincere gli americani della volontà di lottare per la crescita e l’occupazione in America, dopo aver probabilmente prestato troppa attenzione al salvataggio di un sistema finanziario che forse ha molto appoggiato la sua elezione nel 2008. Anche in Italia è forse il momento che chi governa recuperi iniziativa sul terreno del confronto politico sugli interessi reali dei cittadini-contribuenti (cioè dei cittadini legittimati dall’essere contribuenti onesti).Tutto può essere posto concretamente in discussione, a cominciare dal diritto dei giovani a essere un po’ meno disoccupati, un po’ meno precari e un po’ meno malpagati. Per far questo, ad esempio, si possono offrire a lavoratori “seniores” ad alto reddito percorsi di uscita che prevedano sacrifici progressivi delle retribuzioni (“para-licenziamenti”) e approdo modulato a trattamenti previdenziali meno ricchi dei precedenti.
Ma non si può annunciare un sabato la sospensione delle pensioni di anzianità e il successivo la libertà di licenziare senza minimamente toccare la ricchezza sommersa. Così, tra l’altro, chi governa ha più probabilità di perdere che di vincere le prossime elezioni. E non perché così hanno stabilito i “guru” di Cernobbio.