Negli ultimi giorni su ilsussidiario.net diverse voci autorevoli hanno sollevato preoccupazioni su come verrà in concreto declinata una nuova stagione di liberalizzazioni economiche: la “fase 2” con la quale il governo Monti intende integrare tecnicamente la manovra fiscale “salva-Italia” e – in fondo – giustificare politicamente la sua permanenza in carica fino al termine della legislazione. Al “caveat” di principio di Alberto Brandirali – che ha messo apertamente in guardia contro i rischi di un esecutivo a guida “mondialista” in un contesto di democrazia realmente sospesa – ha fatto da contrappunto un editoriale di Raffaello Vignali: se il governo Monti si propone davvero una riforma radicale dell’economia in senso altamente liberalizzatorio, allora non si limiti all’acqua o ai taxi, ma affronti una sfida-Paese vera come l’“education”. Spinga l’acceleratore sulla liberalizzazione dei “servizi di produzione di capitale umano”; promuova la concorrenza nella scuola e nella “knowledge economy”, senza farsi intimorire da un’illusione ottica: non è l’aumento del fatturato delle scuole private a contare; è la diminuzione tendenziale del costo per l’utente (“i nostri bambini”, ripete Monti)



Ieri, non ultima, una nota di Giulio Sapelli ha subito messo nel mirino la consueta confusione (nella migliore delle ipotesi) tra “liberalizzazioni” e “privatizzazioni”. Le prime sono certamente utili – almeno sulla carta – quando la rottura di un monopolio (tipicamente pubblico) e l’ingresso di nuovi operatori concorrenziali portano a servizi migliori a tariffe più basse. Diverso è invece, ha scritto Sapelli, quando si procede a privatizzare senza liberalizzare, fingendo di liberalizzare. «La mancata crescita di oggi – denuncia l’economista – è frutto delle disgraziate privatizzazioni senza liberalizzazioni degli anni ‘90. Privatizzazioni fatte per gli amici degli amici e all’argentina, ossia per togliere dall’agone della concorrenza internazionale gran parte dell’industria italiana. Di ciò non abbiamo mai chiesto conto a nessuno; intellettualmente e politicamente intendo».



Pur senza citare Autostrade o Telecom, Sapelli ci mette davvero poco ad andare al nocciolo dell’attualità: «Non è scritto da nessuna parte che le imprese pubbliche municipali possedute dai Comuni debbano essere di per sé inefficienti e quelle stesse imprese possedute da privati debbano essere efficienti e quindi virtuose». Che è quello che invece rischia di essere il nucleo del “decreto-liberalizzazioni”: imporre alle municipalità locali di vendere al più presto i loro asset pregiati nella utilities locali (A2A è la più importante e simbolica) per risolvere alla peggio problemi di finanza nazionale. Ancora una volta, poi, con la prospettiva di affidare aziende strategiche anzitutto alle investmenti bank globali e poi parcheggiarle presso gruppi italiani per poi ridirottarle verso altri colossi esteri.



Mentre cresce attesa del decreto del 20 gennaio (ma poi Monti è più interessato alla lobby dei farmacisti o a “riformare” a modo suo la Rai?), è più palpabile di giorno in giorno l’impressione che il vento delle “privatizzazioni senza liberalizzazioni” abbia ripreso a spirare su un altro segmento strategico, forse il più strategico di tutti: quello bancario. Nessuno può dire con certezza cos’è accaduto da quando l’aumento di Unicredit da 7,5 miliardi a forte sconto e diluzione è stato lanciato: anche per rispondere in tempo reale al sollecito dell’Eba. Dal 3 gennaio il titolo di Piazza Cordusio ha perduto quasi due terzi del suo valore, poi, ieri ha parzialmente recuperato, con forti scambi sul capitale. Alcuni aspetti tecnici (l’arbitraggio tra valore dei diritti e sottoscrizione di nuove azioni) spiega solo in parte gli andamenti. E la Consob, del resto, ha detto di aver messo Unicredit sotto osservazione, in particolare per le mosse speculative di hedge fund.

Questi ultimi non sono mai interessati a diventare azionisti stabili di una banca, ma certamente possono effettuare grosse puntate per conto di “investitori ultimi”, anche al momento non identificati. Non manca chi accusa le Fondazioni di operazioni sul mercato per minimizzare il costo della loro permanenza nel capitale, né chi invita a guardare alle mosse dell’Azienda-Germania in una banca con un presidente tedesco e forte presenza in Germania, ma con la sola Allianz rimasta azionista stabile al 2%. Si vedrà.

Ma dopo aver perduto via via pezzi di sistema creditizio (Bnl venduta a Bnp, CariParma a Credit Agricole, AntonVeneta ricomprata da Abn-Amro e Santander dissanguando il Montepaschi) nessuno crede più alla favoletta liberista secondo cui i colossi bancari stranieri “portano concorrenza”, “liberalizzano” e dunque hanno precedenza obbligata sulle Fondazioni, permanentemente invitate a togliere ogni presidio italiano alle banche nazionali (anche la Popolare di Milano non va persa di vista: il “cavaliere bianco” Andrea Bonomi e il suo partner americano Raffaele Mincione vogliono cavalcare il pressing di Bankitalia su capitale e governance per un’ennesima operazione di private equity? In questo caso sarebbe tragicamente imperdonabile la miopia con cui i dipendenti-soci hanno teso la corda dello scontro con mercato e authority).

Chi oggi accusa il sistema bancario italiano di essere corresponsabile della crisi (a cominciare dal razionamento di credito) è in – almeno in parte – malafede tanto quanto chi vuol spacciare per liberalizzazioni “chieste dall’Europa”, una nuova ondata di privatizzazioni puramente finanziarie, volte a espropriare ideologicamente il cosiddetto “capitalismo municipale”. Come ha ruvidamente ma efficacemente sottolineato Sapelli: il capitalismo finanziario ha drammaticamente fallito fuori Italia, mentre in Italia quello familiare ha mostrato – diceva Enrico Cuccia – di essere strutturalmente “povero di capitali” e spesso anche di imprenditorialità.

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