Anche nel giorno di Capodanno molti italiani hanno circolato per la rete autostradale, sborsando subito qualche euro in più di tariffa maggiorata in media del 3,1%. Di certo non saranno stati pochi quelli che hanno psicologicamente percepito il rincaro alla voce “austerità”: un effetto della manovra “salva-Italia”, come l’aumento delle rendite catastali ai fini della nuova Imu o quello previsto dell’Iva. L’adeguamento delle tariffe autostradali non è invece una “tassa” che s’incrementa per risanare le finanze pubbliche, né un “sacrificio” chiesto agli italiani per ridare sostenibilità al più ampio sistema-Paese, come la riforma previdenziale. L’aumento del pedaggio è invece un appesantimento del prezzo deciso da gestori privati in concessione, come la famiglia Benetton e i suoi soci in Atlantia, che si sono aggiudicati Autostrade per l’Italia una decina d’anni fa al culmine della stagione delle privatizzazioni.
I rincari sono stati annunciati autonomamente dall’Aiscat (l’associazione dei gestori) in base a una normativa sulla quale il governo Monti – in queste ore totalmente assorbito dalla preparazione della fase “riparti-Italia” – si è al momento guardato dall’intervenire. Secondo alcune anticipazioni, il Consiglio dei ministri del 28 dicembre avrebbe dovuto “approvare” gli adeguamenti tariffari annuali. Il comunicato di Palazzo Chigi segnala invece soltanto la nomina – su proposta del ministro Corrado Passera – di Pasquale de Lise (ex presidente del Tar del Lazio) a direttore generale della neonata Agenzia per le infrastrutture e i trasporti.
La nuova authority – come quella gemella per l’Energia – sarà chiamata per l’appunto a vigilare su prezzi, prestazioni, investimenti e sviluppo nei servizi offerti da gestori: soprattutto quelli nei settori in cui la liberalizzazione (e quindi la concorrenza) è più faticosa. L’Alta velocità ferroviaria è annunciata come il primo banco di prova: Ntv (promossa da imprenditori come Luca di Montezemolo e Diego Della Valle, alleati italiani del colosso pubblico francese Sncf) dovrebbe attivare nel 2012 un servizio concorrente con quello offerto finora in monopolio pubblico dalle Fs.
Nel frattempo, in ogni caso, i gestori della autostrade si sono riconosciuti l’adeguamento ordinario: per il 60% recupero dell’inflazione, per il 40% copertura di investimenti deliberati. In concreto, appesantiscono (non di poco) i costi di produzione per una porzione vasta dell’Azienda-Italia a fini di mantenimento dei propri livelli di profitto (Atlantia è quotata in Borsa) o – al massimo – scambiano entrate di cassa per coprire a stretto giro investimenti appena effettuati o da effettuare a breve solo con il vincolo di aumento dei prezzi. E tutto questo è il risultato di una delle privatizzazioni-chiave della “fase 1”, che già non ha mancato di far discutere: quando – nel 2006 – il secondo governo Prodi (il primo aveva consegnato le Autostrade ai Benetton) bloccò la sostanziale vendita del gruppo agli spagnoli di Abertis, fortemente sostenuti dal sistema bancario locale, proiettato verso gli investimenti immobiliari e infrastrutturali.
Forse non è un caso che negli stessi mesi, lo stesso esecutivo Prodi abbia bloccato una ristrutturazione del gruppo Telecom (allora controllato da Marco Tronchetti Provera) che prevedeva la vendita all’estero di Tim e l’alleanza col polo Murdoch nel settore media: anche in questo caso era stato Prodi (con Carlo Azeglio Ciampi al Tesoro e Mario Draghi Direttore generale) a privatizzare Telecom, con un’Opv integrale e un “nocciolino duro” pilotato dalla famiglia Agnelli. In meno di due anni il governo D’Alema appoggiò l’Opa del “capitano coraggioso” Colaninno, in realtà cavalcato dalle grandi banche d’affari di Wall Street. Risultato: Telecom è da dieci anni un’azienda paralizzata dal suo debito, incapace di fare da volano allo sviluppo digitale del Paese, insidiata nel controllo da Telefonica de España, a malapena equilibrata dalle banche italiane di Telco.
Il premier Monti ha trascorso il Capodanno a Roma, volendo testimoniare il suo impegno: privatizzazioni e investimenti in grandi opere dovrebbe appunto accompagnare nuove richieste di “solidarietà” agli italiani (questa volta non ai contribuenti, ma ai lavoratori dipendenti cosiddetti “ipergarantiti”). Non sarà male ricordare a Monti – un liberista moderato – che non potrà far finta di ignorare tutte le lezioni degli ultimi vent’anni: lezioni che lui ha potuto non solo osservare e commentare come economista, ma spesso anche ispirare e realizzare come commissario Ue all’Antitrust.
Lo spunto di riflessione più sintetico non può essere che questo: per quanto complicato, è necessario tenere sempre ben distinti tutti i fini e tutti i mezzi. Se vendere un gioiello serve principalmente per far cassa (a suo tempo era certamente il caso di Telecom, oggetto di un preciso accordo Roma-Bruxelles sull’ingresso italiano nell’euro), occorre puntare su quell’obiettivo. Telecom (non da sola: accadde in precedenza a Credit e Comit) fu invece venduta in Opv disperdendo intenzionalmente il valore del premio di maggioranza assoluta. Ciò – soprattutto nel caso di Telecom – ebbe quindi l’effetto di abbassare i prezzi, unitamente a quello di riconoscere alte commissioni alle banche d’affari internazionali che curarono un collocamento diffuso.
Telecom divenne in ogni caso (ovviamente per poco) una public company: e la cosa fu spacciata – un po’ ideologicamente – come un contributo importante alla crescita della Borsa italiana in Europa (“le privatizzazioni offrono merce di valore per il risparmio gestito liberato dai depositi bancari; le grandi imprese insegnano alle medie e alle piccole che la loro crescita può avvenire solo con l’apertura del capitale in Borsa”). Analogamente la “madre di tutte le Opa” su Telecom fu presentata come operazione esemplare della contendibilità di grandi utilities a capitale aperto e conduzione manageriale: invece fu, una volta di più, una grande abbuffata per il circo della finanza globale.
Ancora: si disse che Telecom privatizzata e imprenditoriale (sia con gli Agnelli, sia con Colaninno, sia con Tronchetti) avrebbe fatto crescere l’intera Azienda-Italia. Quindici anni dopo la rete Telecom è invece ancora in predicato di essere ri-pubblicizzata per potere essere finalmente modernizzata – con investimenti statali o misti – al fine di colmare il “digital divide” tra le diverse aree del Paese e tra l’Italia e gli altri paesi. E i Benetton non sono più imprenditori: sono finanzieri e gestori di concessioni pubbliche.
Ci sono pochi dubbi che la “strategia Passera” farà leva sulla Cassa depositi e prestiti (controllata da Tesoro e Fondazioni) e sui fondi strategici misti da essa germinati. Guarda caso la prima operazione significativa del fondo F2i è stato rilevare dal Comune di Milano quote di minoranza di Autostrada Serravalle e di Sea: un’operazione di cassa di una grande municipalità che – nelle attese – potrebbe essere un blocchetto di partenza per operazioni infrastrutturali. Ma siamo già in zona grigia.
In piena “zona rossa” ci ritroviamo già d’altronde quando – è capitato una decina di giorni fa su Il Corriere della Sera – il solito Francesco Giavazzi ha invitato Monti a fare pressing vigoroso e veloce sulle grandi municipalità perché dismettano le loro quote di maggioranza nelle utilities (A2A, Iride, Hera, ecc.). Con il solito “manifesto” luccicante in vetrina: “privatizzare” serve a “liberalizzare” e quindi ad abbassare i prezzi finali per i consumatori e infine a migliorare la civiltà economica complessiva.
Non sorprende che lo stesso Giavazzi sia consigliere d’amministrazione di Autogrill: il monopolista “pendant” di Autostrade, il boccone d’assaggio delle pseudo-privatizzazioni prodiane presso i Benetton.