Una conferma di principio dell’intento di rendere indipendente Snam Rete Gas, ma con una tempistica che può raggiungere il giugno 2014. E una sospensione di 90 giorni – non una cancellazione formale – nell’assegnazione delle frequenze tv sul digitale terrestre, mentre resta allo stato di preannuncio la riforma della governance della Rai. Poi nient’altro: sulle liberalizzazioni “pesanti” – legate a nuove privatizzazioni o pubblicizzazioni – la manovra “cresci-Italia” varata venerdì dal governo Monti ha praticamente taciuto. Silenzio, soprattutto, sull’ipotesi largamente attesa di scorporo dalle Fs dei binari della Rfi: prima dovrà essere attivata la nuova authority su trasporti e infrastrutture (che dovrà anzitutto aprire l’Alta velocità a Ntv: con il biglietto da visita italiano di Luca di Montezemolo e Diego Della Valle a nascondere il grande fratello francese Sncf). Il nuovo ente vigilerà anche sulle autostrade, ma intanto gli aumenti varati a fine anno dai gestori sono tacitamente approvati. La cautela dell’esecutivo tecnico nel mettere mano alle grandi reti, all’hardware dell’azienda-Italia, si è dunque rivelata massima: pari a quella che ha tolto dal primo “pacchetto sviluppo” qualsiasi riferimento al mercato del lavoro e all’articolo 18 sui licenziamenti individuali.

Non è necessariamente una cattiva notizia, anche se taxisti e farmacisti (reti “leggere”) potranno lamentarsi di essere stati toccati per primi. Il premier Monti, d’altronde, era già stato inequivocabile durante la sua visita alla City di Londra: i grandi gioielli energetici pubblici (Eni ed Enel) per ora non verranno messi sul mercato e neppure Finmeccanica. Analogamente, i decreti non vanno direttamente in pressing sulle grandi utilities ancora controllate dagli enti locali: ma avrebbero avuto senso proclami o diktat proprio nel giorno in cui A2A e Iren hanno trovate intese sul futuro di Edipower, a valle dell’operazione Edf-Edison?

A Londra Monti ha tatticamente taciuto su altri due grandi network come Poste e Terna, ma sempre lontano dall’ideologica fretta privatizzatoria che ha prevalso negli anni ‘90. Certo, il Bancoposta è un’azienda importante e contiene molto valore economico: andrà valutato con attenzione se al sistema-Paese in questo passaggio interessa più la realizzazione finanziaria (con un’ipotetica quotazione) o l’impiego strategico (nel riassetto del sistema creditizio). Senza dimenticare (e questo vale anche per Terna) che una parte del controllo pubblico è già stato riarticolato con l’intervento della Cassa depositi e prestiti, ormai joint-venture tra Tesoro e Fondazioni di origine bancaria.

Il riordino delle grandi reti – anello chiave di molte catene produttive – resta in ogni caso il dossier per eccellenza sul tavolo di una politica industriale ovviamente soggetta a tensioni e pressioni crescenti. Il governo Prodi 1 affidò Autostrade, alla fine degli anni ’90, alla famiglia-simbolo del “nuovo capitalismo” italiano: i Benetton. Ma dieci anni dopo il Prodi 2 dovette affannosamente bloccarne la vendita virtuale agli spagnoli di Abertis.

Non sempre i grandi imprenditori nazionali rappresentano il partner preferibile per privatizzare/liberalizzare producendo crescita. Non è stato così neppure per Telecom: prima parcheggiata presso la famiglia Agnelli (con Prodi 1), poi scalata da Roberto Colaninno (con D’Alema), poi messa in mano a Marco Tronchetti Provera e ancora ai Benetton, agganciata infine (da Prodi 2) a Mediobanca e Intesa Sanpaolo. Un polo sottoposto all’influenza di un grande competitor estero come Telefonica e non più dotato di risorse interne per finanziare lo sviluppo della rete. E di quest’ultima, non a caso, è stata più volte ventilata la ripubblicizzazione, sempre attraverso la Cdp. Di qui alle elezioni 2013 qualcosa accadrà?

Fin dalla crisi della gestione Tronchetti la partita delle tlc ha del resto incrociato il delicatissimo mercato dei “media”: allo scorporo di Tim e della rete fissa avrebbe potuto accompagnarsi un’alleanza strategica con Sky e probabilmente anche con Rcs. La “regulation” allora impediva ancora la gestione integrata di giornali e tv, oggi sostanzialmente superata, anche se manca ancora un quadro ridefinito. “Le normative interne ed europee sono molte”, ha sottolineato non a caso il ministro Passera nell’annunciare lo stop momentaneo sulle frequenze del digitale terrestre. Ma è indubbio che – per quanto simbolico e politicamente rilevante (coinvolgendo Mediaset) – si tratta di un passaggio quasi periferico rispetto a un più ampio riassetto (regolatorio, proprietario, strategico) delle “reti media”, al quale contribuiranno varie accelerazioni prodotte dalla crisi: a cominciare dalle difficoltà della Rai e di molti editori di carta stampata.

In breve: il progetto “Telecom media company” potrebbe tornare d’attualità (forse assieme ad altri) mentre la rete fissa – bisognosa di investimenti per colmare il “digital divide” nazionale – potrebbe trovare nuovi assetti.