Giorgio Squinzi, leader di Confindustria, ha faticato a conquistare nel fine settimana i titoli dei grandi giornali “montiani” (ormai lo sono quasi tutti). Troppo scomoda, anzitutto, quella tribuna leghista: ma evidentemente altri partiti (dal Pd all’Udc, forse allo stesso Pdl) giudicano in questo momento scomodo avere come interlocutore il numero uno di Viale dell’Astronomia. Troppo scomodo, forse, anche lo sfondo torinese: la città di Sergio Marchionne che alla Fiat taglia investimenti e chiede sussidi; di Luca di Montezemolo, sempre impegnato a “non scendere in campo” in politica; la Torino della stessa Susanna Camusso, che ha frenato all’ultimo sul contratto dei chimici, fresco di firma. Per di più il “patron” della Mapei ha detto di non aver affatto cambiato idea su quanto, a suo parere di industriale, è necessario dopo il voto di primavera: un governo “politico”; cioè non bloccato all’interno da false “solidarietà nazionali” a limitata supplenza tecnica, né gregario all’esterno, di tecnocrazie europee e mercati.

Nel weekend del nuovo forcing sul “Monti-2”, Squinzi ha dunque nuovamente cantato fuori dal coro e stavolta sarà difficile – per chi non avrà gradito – addebitarlo al faticoso rodaggio come presidente-comunicatore. Ma è nel merito politico-economico che Squinzi ha voluto giocare nuovamente il suo gioco, non il gioco obbligato e ormai tutto politicista del “Monti sì/Monti no”. Le aziende sono pronte a rinunciare a tutti i sussidi in cambio di un calo della pressione fiscale su imprese e lavoro per rilanciare i consumi: questo il nocciolo dell’agenda autunnale di Confindustria. Che non fa mistero di rilanciare l’agenda Giavazzi, commissionata al collega bocconiano dal governo Monti e subito cestinata: e sarebbe forse utile che l’interessato ringraziasse Squinzi per averla accreditata dal campo dell’economia reale.

In attesa che Giavazzi rivendichi il suo ruolo (come Giuliano Amato, che avrebbe dovuto occuparsi dei “costi della politica”), la Confindustria di Squinzi tira per la giacca Palazzo Chigi, offrendo un’”auto-spending review”, senza pretendere di cominciare sempre dalla “spending review” degli altri (e lo Stato dovrebbe cominciare da se stesso). 

Ma non sembra solo una ricetta contingente: c’è una visione che non è “montiana” nella misura in cui riduce la strategia politico-economica all’austerità che il Paese non può non imporsi per restare nel club dell’euro e per non venire azzannato nuovamente dai mercati. Squinzi preme invece perché l’Azienda-Paese eserciti una sovranità economica che certamente ancora le compete.In questo, l’industriale milanese sfida Monti sul suo stesso terreno: a essere davvero uomo “del libero mercato”.

Entro il 18 ottobre le parti sociali si sono impegnate a stringere un accordo-quadro sulla produttività che smuova le acque basse e stagnanti della recessione italiana. Bene, Squinzi le sue carte le ha messe sul tavolo: scambio sussidi/alleggerimenti fiscale e, soprattutto, quel contratto siglato lo scorso 22 settembre da Federchimica, Farmindustria e tutte le sigle del settore (anche la Filctem-Cgil). Anche questo avrebbe richiesto più spazio mediatico. Per 180mila addetti e 3mila imprese entrano in funzione regole veramente nuove: ad esempio, la staffetta strutturata fra un lavoratore senior in uscita e uno junior in entrata. Oppure la flessibilità sull’erogazione dell’aumento dei minimi contrattuali (nell’arco di sei mesi) se lo richiedono le esigenze di produttività in un’azienda che fronteggia la crisi.

Monti – fra una trasferta estera e una dichiarazione tattica sul governo che verrà – farebbe bene a occuparsi “tecnicamente” di questo.