Il taglio alle detrazioni fiscali Irpef non convince per niente, tanto più se bandito come una manovra a scambio positivo per il contribuente per via di mini-tagli alle aliquote dell’imposta sul reddito. L’impostazione data l’altra sera dal governo alla Legge di stabilità induce invece a rovesciare il classico “win-win” con cui il gergo anglosassone identifica i contratti – privati o politico-sociali – in cui “tutti vincono”. Quando si impone un “cap” drastico agli sconti a tutti gli imponibili oltre i 15mila euro, si lasciano certamente vincere (di nuovo) gli evasori fiscali: quelli che lo sono già (gli stessi che sopravanzano i veri “bassi redditi” nelle graduatorie per gli asili comunali e poi ci accompagnano i figli col suv) oppure quelli che evasori a questo punto lo diventeranno, magari sospinti dal populismo elettorale dei tribuni di turno.
Poi vincono certamente ai punti (di nuovo) molti dei beneficiari assortiti di quel 50% di Pil intermediato dallo Stato per via fiscale: poco conta se sono amministratori disinvolti o dipendenti improduttivi. Un tempo di assunzioni nella Pubblica amministrazione vivevano partiti eternamente “governativi”, grandi e piccoli. Chi si avvantaggerà, al voto di aprile, dell’incapacità del governo “tecnico-bocconiano” di gestire la bancarotta clientelare del welfare statale?
Nel frattempo è lunga – e maggioritaria – la lista dei “perdenti”. Meno cittadini (soprattutto classe media) potrà/vorrà acquistar casa, con minori incentivi fiscali. Meno cittadini saranno invogliati a sottoscrivere prodotti assicurativi per garantirsi da rischi “reali” (vita, infortuni, malattie, ecc.). Ne potrà godere qualche Masaniello anti-banche e anti-compagnie, ma non è certo la riduzione ulteriore del Pil generato dal settore finanziario il modo migliore per stimolarlo a tornare efficiente ed efficace nel servire i bisogni reali dell’Azienda-Paese. E questo, francamente, un governo tecnico potrebbe risparmiarcelo. Forse sarebbe opportuno che – come ad Atene all’inizio della settimana – fosse direttamente il cancelliere Merkel a spiegarci che l’austerità – ma anche il risanamento e il rilancio dell’economia – sono “politica”.
Sono mesi che il presidente di Confindustria, Giorgio Squinzi, ripete che il Paese sta morendo di fisco e che l’Azienda-Italia va rianimata con segnali di fiducia, non con farmaci depressivi di dubbia prescrizione. Squinzi – un imprenditore “win-win” in Italia e fuori- lo ha ridetto ieri sera al “Circolo del Sussidiario” ed è stato molto applaudito da una sala folta di imprenditori: nonostante abbia realisticamente confermato di non prevedere una ripresa autentica prima del 2015. Ma quando l’aveva affermato la prima volta in primavera – sollecitando a tutti una scossa – il premier Mario Monti personalmente lo aveva tacciato di “disfattismo”.
Oggi il quadro previsionale della legge di stabilità accoglie la stima del Centro studi Confindustria di una recessione del 2,4% nel 2012 e di un primo semestre 2013 ancora negativo. Ma al posto della scossa il governo ha rinnovato una “sobria rassegnazione”: che sorprende un po’ nella retorica laica. Ma la grande crisi sta facendo giustizia anche di molti luoghi comuni di cultura civile.