Lo scambio di (s)cortesie registrato ieri fra il Comitato di Basilea, l’Unione europea e la stessa Bce sullo sviluppo delle nuove regole bancarie potrà sembrare un tema da addetti ai lavori. Il Comitato – depositario delle tavole della legge di “Basilea 3” – ha pubblicato un rapporto intermedio non del tutto favorevole all’adozione progressiva dei nuovi standard di vigilanza microprudenziale da parte delle istituzioni creditizie europee. Il commissario Ue al mercato interno, il francese Michel Barnier, ha respinto subito al mittente il “report” proveniente dalla Bri, accusandolo di «scarso rigore». In serata, intanto, il membro tedesco dell’esecutivo Bce, Joerg Asmussen, si è detto pessimista sullo start-up della cosiddetta “unione bancaria” all’inizio del 2013. Come se non bastasse, il presidente della Fed, Ben Bernanke, ha nuovamente attaccato l’Europa come zavorra della ripresa globale.
Mentre Barack Obama si accinge a una rielezione non entusiasmante, incassando comunque la benevolenza di Wall Street dopo una “ri-regulation” con mano morbida, in Europa il futuro delle banche resta fulcro e simbolo del confronto politico-economico “tout court”. E non è affatto casuale che un commissario Ue (pur sempre un tecnocrate, ancorché di diretta provenienza politico-governativa) sia protagonista di un duro botta e risposta con gli ultra-tecnocrati di Basilea: mai amati dalle comunità bancarie del continente europeo in quanto portatori di un verbo regolatorio sempre più discutibile dopo la grande crisi scoppiata nel 2008.
Basti pensare all’oggetto del contendere di ieri: le due “aree” su cui le banche europee sarebbero in ritardo sono la definizione del “capitale ordinario” da porre a base dei parametri patrimoniali; e l’uso dei rating standard (non dei sofisticati rating interni) nella concessione dei crediti alle imprese. Temi bollenti nell’Italia in pesantissima recessione di fine 2012: nella quale le banche (sempre più in difficoltà nel finanziare le imprese) si ritrovano discriminate rispetto alle concorrenti europee per essere state più virtuose (senza aver praticamente chiesto aiuti pubblici); e messe apparentemente in cattiva luce perché – è il caso, ad esempio, delle Banche di credito cooperativo – non si uniformano con le big anglosassoni nell’adottare complicati software per affidare centinaia di migliaia di piccole imprese.
Perché la sostanza – con buona pace intellettuale di Mario Draghi, primo firmatario di “Basilea 3” due anni fa – resta questa: la nuova architettura di standard globali mette sotto pressione le banche territoriali sia perché le obbliga a investimenti non proporzionati, sia perché – soprattutto – alza muri virtuali fra gli sportelli locali e la loro clientela di famiglie e imprese.
Se il paragone non è eccessivo, è un altro caso di sottrazione di sovranità (in questo caso del mercato) a vantaggio di “stanze dei bottoni” apolidi, ideologicamente a favore del rilancio della finanza “apolide” a vantaggio (forse definitivo) di quella “regionale”. (Quando il presidente di Confindustria, Giorgio Squinzi, è tornato a chiedere ieri che dal voto in primavera esca «una classe politica più seria», non è stato certo per moralismo: un vero “governo politico” – poco conta se guidato o no da Mario Monti – deve riportare l’Azienda Italia con peso e autorevolezza ai tavoli in cui si decidono le nuove regole del gioco in un confronto spesso senza regole).