L’“anno di Monti” si chiude con due passaggi solo apparentemente da addetti ai lavori nel sistema finanziario domestico: il varo parlamentare (salvo colpi di scena) di un pacchetto di modifiche nell’ordinamento delle Banche popolari; un “passo doppio” sulla Cassa depositi e prestiti con un’ormai scontata conferma del ruolo delle Fondazioni nel controllo (con un prevedibile ulteriore investimento di un paio di miliardi) e il trasferimento dal Tesoro alla stessa Cdp di Fintecna, Sace e Simest con un versamento di 5,4 miliardi dalla Cassa al fondo di ammortamento del debito pubblico. Entrambe le notizie conferiscono una medesima tonalità allo “stato delle cose” sullo scacchiere bancario fra mercato e Stato, quando ormai l’esecutivo tecnico – spesso tacciato di essere “il governo dei banchieri” – sta consegnando alle urne anche le chiavi del futuro politico-finanziario del Paese.

La riforma delle Popolari sembra, anzi è, “mini”. Di fatto si limita a ritoccare di poco il tetto nominale di possesso sia per i privati (dallo 0,5% all’1%), sia per gli investitori istituzionali (fino al 3%, ma valido anche per legittimare il ruolo delle Fondazioni Cassa Cuneo e Monte di Lombardia nell’azionariato di Ubi Banca). Viene invece lasciato alla libertà statutaria delle singole Popolari l’eventuale innalzamento fino al massimo civilistico di dieci delle deleghe portabili da ciascun socio in assemblea (quasi tutte le big si sono già allineate a cinque), e a fissare eventuali quantitativi minimi di possesso azionario per l’ammissione al libro soci: oggi in teoria è sufficiente una sola azione per chiedere di partecipare con ruolo pieno alla vita di una grande cooperativa creditizia quotata. E a proposito: nulla cambia per il voto capitario (per testa e non per quota detenuta, come nelle Spa), cardine dell’ordinamento cooperativo.

La riforma – inserita nel decreto sviluppo in conversione attraverso un emendamento bipartisan (fuori solo l’Idv) – risponde pressoché in pieno alle istanze gradualiste sostenute da almeno un biennio dall’Assopopolari. La portata politica dell’intervento in via di perfezionamento sta dunque soprattutto in quanto non contiene: la disarticolazione delle difese storicamente assicurate dalla governance cooperativa a un settore che conta numerose banche di fascia alta nell’Azienda-Paese (Ubi, Banco Popolare, Bpm, Bper, Sondrio, Valtellinese, Vicenza, Etruria). Le forze politiche (forse più dei tecnocrati di governo e Bankitalia, ma comunque con il loro “silenzio assenso”) hanno dunque tenuto a distanza la pressione mediatica di quel liberismo finanziario per il quale le Popolari rimangono la classica uva che tarda sempre a maturare.

Dopo la grande crisi, gli hedge fund hanno fatto capolino negli azionariati di molte Popolari, assai sottovalutate in Borsa come la gran parte delle banche europee. Si tratta di un interesse “sano” sul recupero delle quotazioni nel medio periodo sull’onda del risanamento economico-finanziario? Oppure è una scommessa sulla ripresa possibile del merger&acquisition nella ristrutturazione del settore bancario? La (non) riforma italiana conferma ora che su una Popolare un’Opa ostile non può essere lanciata. Certo, le Popolari ora devono onorare una cambiale concessa dal sistema-Paese: più credito, più efficienza, più banking davvero “sussidiario” verso famiglie e imprese dei territori.

Per certi versi all’opposto, il Tesoro (cioè il Governo) sta definendo un “prelievo patrimoniale straordinario” dalle Fondazioni per finanziare una “para-privatizzazione” di residue partecipazioni statali (Fintecna) o di società che restano in parte “di interesse nazionale” (Sace). In termini estremamente grezzi, la conversione in azioni ordinarie del 30% di capitale privilegiato detenuto da 65 Fondazioni nella Cdp equivale a un aumento di capitale (il compromesso sarà ragionevolmente trovato a 1,5-2 miliardi). E questi mezzi freschi andranno – pressoché contestualmente – a coprire “a leva” fra un quarto e un terzo dell’investimento della Cdp in asset che il Tesoro vuole liquidare a 5,4 miliardi.

Le cifre non hanno bisogno di alcun commento: il saldo della Legge di stabilità che il Governo sta faticosamente difendendo è 11,6 miliardi. Certo, 5 miliardi di “ammortamento straordinario” sono una goccia nel mare di 1.975 miliardi di debito pubblico. Ma sono anche l’unico “anticipo” sui 100 miliardi di incassi stimati (annunciati) dal ministro dell’Economia, Vittorio Grilli, come “bazooka” taglia-debito. E la manovra avviene grazie a un accordo fra il Tesoro e le Fondazioni. Per quest’ultime l’esborso non sarà proprio lieve: a bilanci 2011 il patrimonio contabile degli 88 enti associati all’Acri ammonta a 43 miliardi e in parte è ancora immobilizzato nelle partecipazioni bancarie (sia nel caso di Intesa Sanpaolo che di UniCredit) che hanno dovuto essere reintegrate attraverso aumenti di capitale.

È vero che l’investimento originario del 2004 (1 miliardo) nella Cdp è stato ripagato dai dividendi. Resta il fatto che, otto anni dopo, l’intervento viene confermato e moltiplicato: esattamente com’è accaduto per le grandi banche sotto crisi. E ciò avviene su richiesta del Governo: allora retto dal centro-destra dopo un duro tentativo di ristatalizzare le Fondazioni; oggi da tecnocrati non estremisti e ideologici come Giavazzi, Boeri, Zingales (nemici irriducibili delle Fondazioni), ma comunque appartenenti a quella salda tradizione di “privato/mercato” che non ha mai troppo amato i “centauri” creati dalla legge-Amato. Quei mega-investitori della sussidiarietà che continuano a rispondere a enti locali e società civile, ma che così facendo oggi sono fra i primi soci (graditi) in Mediobanca.

Certo, ad alcuni può apparire poco estetico che il vigilante delle Fondazioni, azionista di controllo della Cdp, negozi con le Fondazioni un flusso extra e che concordi con loro – nella governance Cdp – ricollocamenti di asset pubblici: la denuncia – anche tecnicamente demagogica – di “Report” sul supposto uso improprio del risparmio postale degli italiani per costruire una “nuova Iri” nasce da questo humus cultural-mediatico. Ma che il clima sia inequivocabilmente cambiato lo conferma una recentissima uscita pubblica di Vito Gamberale: vecchio tecnocrate pubblico (Tim è stata inventata da lui vivente ancora l’Iri), oggi non per caso a capo di F2I, il fondo infrastrutturale germinato dalla “nuova Cdp” e candidato a rilevare la rete Telecom per farne un network-Paese di nuova generazione. «La svendita di Telecom ai barbari è la grande macchia delle privatizzazioni italiane», ha tagliato corto su quindicennio degli Agnelli, dei Colaninno, dei Tronchetti.

Non sembra davvero più tempo di consigliare ai teleutenti italiani di togliere i loro risparmi dalle Poste per consegnarli a qualche gestore di Wall Street. Per finanziare – con i soldi degli italiani – qualche “madre di tutte le Opa” su cui lucrare commissioni e bonus e da poter esibire poi come paradigma nei manuali. Oppure – ultimamente – per giocare speculativamente sul debito pubblico degli italiani utilizzando il loro risparmio privato: naturalmente ricavandoci il 5,75% di spread.