Le scaramucce su UniCredit-Intesa e dintorni; l’“impasse” sul controllo della Cassa depositi e prestiti, proprio quando sta stringendo sulla rete Telecom; il conto alla rovescia su molti rinnovi ai vertici di enti importanti: non sorprende affatto che la polemica attorno alle Fondazioni bancarie si sia improvvisamente riaccesa sui media. Anzi, il quasi-accordo per l’election-day anticipato al 10 marzo (con in agenda anche il voto per la Regione Lombardia) promette un’escalation .
Alla Fondazione Cariplo, ad esempio, le predesignazioni (terne) da parte di Province, Regione, Camere di commercio e Comune di Milano (la metà dei 40 per il nuovo organo di indirizzo) saranno consegnate già entro il 31 dicembre alla Ccb uscente: così come le procedure per la selezione dei candidati della società civile (parte per indicazione diretta, parte per bando, parte per cooptazione) sono già avviate. Ma il gioco delle conferme (fra cui quella, scontata, del presidente Giuseppe Guzzetti) e degli avvicendamenti era alla conclusione per fine marzo: prima, cioè, della scadenza elettorale originariamente immaginata per il 7 aprile (e solo a livello nazionale). Ora, invece, è verosimile che la stretta finale avvenga dopo il voto: quando la Lombardia in particolare sarà stata sottoposta a un doppio “screening” da parte dei suoi elettori.
È vero che la Regione designa un solo commissario su 40 e che le Province non sono sotto rinnovo. È vero che la “governance” della Cariplo è fra le più collaudate in chiave di autonomia bipartisan, in aderenza con la legge Ciampi e, soprattutto, con le sentenze della Corte costituzionale. Ma è assai improbabile che la mappa aggiornata dei pesi politici nelle “Province Lombarde” sia ininfluente sull’assestamento di una stanza dei bottoni di cui lo storico “chairman”, per di più, è il leader assoluto dell’Acri: cioè dell’intero network delle 88 Fondazioni bancarie.
Ci vorrà tempo per capire come Guzzetti affronterà il “nuovo che avanza”: a Roma (dove potrà sempre contare su un asse di ferro con Mario Monti), ma soprattutto a Milano. I rapporti personali con Umberto Ambrosoli (e con il più vasto ambito Pd) e con Gabriele Albertini (che da sindaco è già stato stakeholder importante della Cariplo) non rappresenteranno mai un problema per l’avvocato lariano, alla guida della Cariplo fin dal ’96. La Lega, invece, lo ha sempre considerato un avversario, anche se poi nella “governance” della Fondazione (soprattutto negli equilibri del consiglio d’amministrazione a 9) erano stati trovati equilibri funzionanti.
Quello della Cariplo, comunque, non è il solo passaggio di rilievo nella categoria. Sono sotto rinnovo tutti gli enti soci di Intesa: a Bologna (dove il rettore Fabio Roversi Monaco, consigliere di Mediobanca per le Fondazioni, dovrebbe ricedere la presidenza a Gian Guido Sacchi Morsiani); a Firenze (dove l’imprenditore Jacopo Mazzei è in lizza per la riconferma); a Padova-Rovigo (dove Antonio Finotti è sotto pressione per una gestione del patrimonio con qualche défaillance).
Nel frattempo il confronto politico divampa. L’argomento dell’ennesimo attacco alle Fondazioni non è nuovissimo e non appare neppure un “bazooka”. È il riciclo di uno studio primaverile di Mediobanca, poi in parte ritrattato nel corso di un inedito invito a Piazzetta Cuccia di Guzzetti e degli altri capi delle Fondazioni. Ma a sua volta il report rispolverava un’idea vecchia di quasi vent’anni: vivo ancora Enrico Cuccia, l’Istituto Ugo La Malfa aveva proposto che le grandi banche pubbliche – allora quasi tutte controllate interamente dalle neo-nate Fondazioni – fossero acquisite dal Tesoro in cambio di Btp. Da un lato sarebbe stato il Tesoro (dove Direttore generale era Mario Draghi e poi fu a lungo ministro Carlo Azeglio Ciampi) a ridisegnare con la Banca d’Italia il “piano regolatore del credito”; dall’altro si immaginava di assegnare alle Fondazioni rendite stabili per le loro erogazioni, consolidando qualche decina di miliardi di debito pubblico “irredimibile”.
Mediobanca, in concreto, contava soprattutto di chiudere la partita iniziata un decennio prima con il varo della legge Amato-Carli: la trasformazione in Spa delle grandi Casse, del San Paolo, del Montepaschi, dei Banchi di Napoli e Sicilia avrebbe dovuto avere come esito l’annessione progressiva delle grandi reti territoriali al “tridente” Comit-Credit-Banca di Roma, le Bin azioniste-partner di Via Filodrammatici. Sotto le firme e gli interventi di personaggi come l’ex governatore e super-ministro Guido Carli, il plenipotenziario craxiano Giuliano Amato e quello democristiano Nino Andreatta, i governatori Ciampi e Fazio, si sarebbe dovuto superare il vecchio muro fra finanza laica e “bianca” e preparare il sistema bancario italiano all’euro.
Il progetto – approntato nel declino della Prima Repubblica – ebbe realizzazione nella Seconda: ma non come desiderava Mediobanca, anzi. I due “campioni nazionali” formatisi per aggregazioni successive, fagocitarono sia il Credit (nel dinamismo manageriale di Alessandro Profumo appoggiato dalle Fondazioni di Verona e Torino prima delle fusioni con Hvb e Capitalia), sia soprattutto la Comit, che finì nel vasto agglomerato di Intesa, prima di agganciare SanpaoloImi.
L’isolamento di Mediobanca, l’instabilità che portò alla rapida defenestrazione di Vincenzo Maranghi nel dopo-Cuccia, derivano in parte dall’incapacità di accettare che “l’Italia delle Fondazioni” (quella dei Guzzetti, dei Biasi, dei Palenzona) aveva avuto il sopravvento nella Seconda Repubblica. Che aveva superato steccati e campanili meglio che in un patto di sindacato (Torino, Milano, Bologna, Firenze e Padova allo stesso tavolo Intesa: qualche volta litigando, sempre trovando soluzioni). Che aveva saputo dare copertura ai Bazoli, ai Profumo, ai Passera, anche ai Geronzi. Che aveva mostrato capacità di negoziare alla pari con un Credit Agricole o con un’Allianz. (Da ultimo – oggi – le Fondazioni sono azioniste tutt’altro che secondarie della stessa Mediobanca e delle Generali)
Le insidie vere, alla Fondazioni, sono venute da tutt’altra parte: da Giulio Tremonti ormai proiettato verso il ruolo di mega-ministro e co-premier (alla fine fatale); e dalla Lega Nord di Umberto Bossi, stanca di essere “primo partito del Nord”, ma di “non avere una banca o una Fondazione” (alla fine in realtà una ce l’ha: è la CariVerona, ma il pivot è un leghista post-bossiano come il sindaco Flavio Tosi). Il tentativo di ripubblicizzazione del 2001 ha avuto comunque uno sbocco importante: uno dei passaggi strutturali più rilevanti della seconda metà del ventennio berlusconiano. Da un lato alle Fondazioni viene definitivamente riconosciuta l’autonomia: sulla Cariplo decidono i lombardi; sulla Compagnia San Paolo i piemontesi, ecc. (per metà gli enti locali, per metà la società civile locale: firmato Ciampi).
Di più: la Corte costituzionale dice, nel 2003, che le Fondazioni sono il pilastro della “sussidiarietà”, cioè di un nuovo welfare autenticamente federalista. In cambio, il Tesoro ottiene da 66 Fondazioni un miliardo per ricapitalizzare la Cdp e scorporarvi una parte delle partecipazioni statali (Eni, Enel, Poste, poi Terna e Snam, infine Fintecna, Sace, Simest). Di più ancora: Fondazioni e Tesoro cominciano a mettere in cantiere una serie di iniziative che – dopo lo scoppio della grande crisi finanziaria e della recessione – sono l’unico “capitalismo” che l’Azienda Italia si è potuta permettere. Il Fondo infrastrutturale F2I – che tratta con Telecom per l’acquisto e la modernizzazione strategica della rete tlc in Italia – è l’esempio più eclatante. Ma il piano nazionale di edilizia sociale da 2,5 miliardi di base-leva non è da meno. E tanti altri dossier bollenti (le contromisure al “credit crunch” e, in particolare, i rimborsi dei crediti miliardari vantati dalle imprese verso la Pa) passano dalla Cdp.
Proprio in questi giorni Tesoro e Fondazioni dovrebbero definire la stabilizzazione della loro partnership strategica (70%-30%) nella Cdp. Il braccio di ferro (in parte solo formale, negoziale) riguarda quanto le Fondazioni devono versare alla Cdp per convertire le loro azioni privilegiate in ordinarie. Dopo una serie di illustri pareri sostanzialmente favorevoli alle Fondazioni (che quindi vedrebbero abbassarsi fra 1 e 2 miliardi l’onere), il Consiglio di Stato ha rinviato la palla al Governo: meglio se la definizione del match è affidata a una norma di legge (dunque a un decreto).
Il vero “ministro del Tesoro” (che è anche il vigilante delle Fondazione) resta al momento Monti. E la Cdp senza le Fondazioni “di Guzzetti” non ha futuro: né mezzi, né il respiro strategico di cui nessun governo – tecnico o politico – potrà fare a meno nei prossimi dieci anni. Certo, non a tutti è piaciuto che Bazoli abbia lanciato un pesantissimo “ballon d’essai” come la fusione UniCredit-Intesa, a blindare tutto: Mediobanca, Telecom, Generali, Rcs, tutto il resto.
In Germania Postbank è servita per dare sostanza a una Deutsche Bank non saldissima: chi può dire che il BancoPosta non possa servire a raddrizzare qualche banca italiana pericolante? Sarà una delle possibili decisioni riservate al Tesoro (chi lo reggerà dopo le elezioni) e le Fondazioni “di Guzzetti”: che certamente ci sarà ancora. Esattamente come Intesa Sanpaolo e UniCredit saranno ancora “banche delle Fondazioni”: anche le due “big” si ritroveranno sedute a tanti tavoli, con carte decisive in mano.
Ecco perché, all’alba della “terza Repubblica”, è ripartito l’assalto alle Fondazioni. Che, sicuramente, rappresentano ormai un “potere costituito”: al punto che, in appendice all’ultimo Rapporto Acri, compaiono due interventi di due presidenti della Corte Costituzionale, Cesare Mirabelli e Ugo Di Siervo. Anche la finanza anglosassone – con i suoi cantori italo-globali come Luigi Zingales – è stata a lungo, è tuttora un “potere costituito” nel Paese: occhieggia dietro Renzi o perfino dietro Grillo, senza rompere il cordone ombelicale con l’albero genealogico dei Ciampi e dei Monti. Che però, da tempo, hanno maturato un compromesso “nazionale” con Guzzetti e Bazoli.