Il rinvio deciso dal cda di Rcs su piano di rilancio e ricapitalizzazione è – ancora una volta – metaforico dell’“impasse” che sembra condizionare l’establishment finanziario di fronte all’accelerazione del sistema politico verso il voto di fine inverno. I grandi soci del Corriere (fra cui Fiat, Mediobanca, Generali, Intesa Sanpaolo) preferiscono attendere il consuntivo 2012 – quindi le prime settimane del 2013, esattamente a cavallo dell’appuntamento elettorale – per definire gli interventi strategici, ma soprattutto quantificare l’aumento di capitale (da un minimo di 400 a un massimo di 800 milioni, secondo diverse stime interne al patto o di mercato).

È evidente da tempo (almeno in questa nota) che l’iniezione di mezzi freschi in Rcs tende a premere sugli equilibri di controllo di un gruppo che è azienda-partito (cioè esposta alle pressioni concentriche del contesto politico) più di quanto lo siano Fininvest o l’Espresso. Nessuno dei soci-pivot è in condizione agevole per investire molte decine di milioni di euro in un’azienda non strategica: non la Fiat (che sta pesantemente ristrutturando l’auto in Italia e possiede già La Stampa), neppure le banche e le assicurazioni (il nuovo masterplan delle Generali si occuperà di focalizzare il business assicurativo e di alleggerire il portafoglio partecipazioni, a cominciare dalla ben più importante Telecom).

D’altro canto personaggi come il ras della sanità privata lombarda Giuseppe Rotelli o come Diego Della Valle scalpitano – più o meno all’esterno del nucleo stabile – per avere ruolo o per accrescerlo in Rcs: benché nessuno dei due sia quel partner industriale di cui il Corriere necessita probabilmente al pari di nuovi capitali.

Lo stand by – che certo non fa bene ad alcuna azienda – è comprensibile e si riverbera su una situazione politica altrettanto complessa. I soci dominanti del Corriere – se l’immagine è lecita – vogliono che il quotidiano sia “lasciato tranquillo” di condurre la campagna elettorale a equilibri dati: quelli – in sintesi – cementati pochi giorni fa da Giovanni Bazoli e Cesare Geronzi a lato del direttore Ferruccio de Bortoli alla presentazione di un libro. Tutto sembrava – sembra – pronto per il sostegno convinto a Mario Monti, sintesi politico-intellettuale del “corrierismo”. Ma in concreto, quale “candidato Monti” si accinge a supportare il “suo” Corriere? E come?

Le “primarie” dei poteri forti Rcs sembrano al momento l’esatto contrario dell’inopinato “endorsement” preventivo del Corriere di Paolo Mieli a Romano Prodi nella volata per il voto 2006. Allora i “watcher” di politica e affari ricamarono a lungo: come poteva un giornalista politico puro, un tattico “leftist” di matrice schiettamente capitolina abbracciare il candidato democristiano caro ai banchieri “nordici” (in parte anche Geronzi, in avvicinamento a Mediobanca) suoi azionisti? Resta il fatto che – per un’incollatura molto discussa – il candidato del Corriere vinse.

Perché il problema – per il terziario bancario-editoriale, si tratti della Goldman Sachs o del Financial Times -resta questo: chi vincerà le prossime elezioni? In Italia vincerà Monti? Ma al Quirinale o a Palazzo Chigi? Come premier di una nuova grande coalizione o “di schieramento”, per quanto ampio? Un Monti “raccomandato” dal Ppe germanocentrico o un Monti “atlantico” potenzialmente utile alla stessa Angela Merkel in caso di una nuova “koalition” dopo il voto in Germania? Un Monti “di Bazoli e/o Geronzi” oppure di “Della Valle e Montezemolo”? Di Casini (Caltagirone)? Di Silvio Berlusconi? Oppure ancora – secondo la suggestione insistita di Carlo De Benedetti – Monti “co-premier” di Pierluigi Bersani per garantire mercati, Europa e magari un po’ anche istituzioni cattoliche?

Nel frattempo via Solferino non ha particolarmente “festeggiato” l’affermazione (non plebiscitaria) di Umberto Ambrosoli alle primarie Pd per la Regione Lombardia. La campagna elettorale – sopra e sotto il Po – è ancora giovanissima. Gli “investimenti” – tutti: finanziari e politici – sono rinviati almeno alla Befana.