Cosa sono le “infrastrutture di coesione sociale”? Quali sono quelle più utili a fronteggiare le diverse emergenze poste dalla crisi? Chi le deve costruire? Con quali fondi e con quali regole? Il super-ministro allo Sviluppo Corrado Passera ha scelto un platea particolare – un convegno romano dell’Unione cristiana imprenditori e dirigenti – per porre una “prima pietra” tra le molte che prevedibilmente segneranno una lunghissima campagna elettorale “costituente”. C’era il cardinale Peter Turkson, Presidente del Pontificio Consiglio Iustitia et Pax, a introdurre i lavori di “Strategie d’impresa per il bene comune”: riflessioni collocate, dunque, esplicitamente nel raggio della Dottrina sociale della Chiesa e dell’enciclica “Caritas in veritate”.
E il ministro tecnico del governo Monti, da poco ex banchiere, ha concordato: il tempo della “finanza imbrogliona” è finito, assieme alle prediche veloci e luccicanti dei “professorini” neo-liberisti, ha detto Passera. Perfino un “guru” del management come Michael Porter si sta occupando meno dei “vantaggi competitivi” utili a vincere sui mercati darwiniani e più della “creazione di valori condivisi” indispensabili a una società economica sostenibile: a luoghi umani in cui le imprese non prosperano a senso unico, a spese di tutti gli altri “stakeholder” (dipendenti, consumatori, ecc.).
Ma non c’era bisogno di un convegno e di un ministro-banchiere per ricapitolare una posizione “cattolica” sul bene comune come parte integrante del valore aggiunto “tout court” di un’impresa: qualcosa che – in una situazione limite – distingue un’impresa da una che non lo è , non certo ad assegnare una semplice medaglietta di “responsabilità sociale” a imprese tutte uguali, ancora tutte connotate dal paradigma unidimensionale della massimizzazione dei profitti finanziari a breve termine. Meno scontato è stato che il ministro cui è operativamente affidata la strategia “Cresci-Italia” abbia di fatto posto le “infrastrutture sociali” sullo stesso piano di quelle “materiali”: delle tradizionali “grandi opere” delle grandi reti, delle grandi utilities produttrici di “energie” di base o pregiate.
Una discreta approssimazione di soggetti che promuovono l’infrastrutturazione sociale del Paese sono le Fondazioni di origine bancaria: che è poi, in concreto, una delle piattaforme alle quali guarda lo stesso Passera – ex capo di Intesa Sanpaolo, controllata da Fondazioni del calibro di Cariplo, San Paolo, CassaBologna, CassaPadova e CariFirenze. Gli ambiti-standard di intervento istituzionale di una Fondazione sono cinque: sanità, education e ricerca scientifica, tutela dei beni, artistici, culturali, ambientali, assistenza alle categorie deboli, sostegno allo sviluppo economico locale. In una parola: sussidiarietà.
Gli strumenti? Le erogazioni degli utili, ma – sempre di più – un buon reinvestimento mirato del patrimonio liberato dalle partecipazioni bancarie in interventi “mission related”. L’area esemplare degli investimenti “materiali” diretti è l’housing sociale: la costruzione di “nuove case popolari” con strumenti finanziari di mercato (fondi immobiliari) partecipati da soggetti pubblici e privati. Piani di “abitazione sociale” sono attivi a livello nazionale (il Fondo partecipato dalla Cassa depositi e prestiti, banche e assicurazioni è a quota 2,5 miliardi) che a livello locale.
Centrale resta comunque la “leva sociale” alla base anche dell’esperienza delle Fondazioni di comunità: una Fondazione di origine bancaria fornisce – idealmente – un euro di patrimonio per ogni euro mobilitato da una “società civile” locale. E sono questi soggetti di secondo livello – dotati della stessa governance “sussidiaria” di una Fondazione – che possono a loro volta monitorare bisogni e interventi su scala micro, ma non “a pioggia”. È a questo livello che può essere individuata e sostenuta, ad esempio, un’iniziativa d’impresa di “nuovo welfare”: una cooperativa di assistenza domiciliare agli anziani (un’azienda in cui si inventino o reinventino giovani non occupati o cinquantenni senza più lavoro).
Oppure – in campo educativo – una scuola, anche se il passo non è brevissimo, per quanto istruttivo: gli “investimenti di coesione sociale” (e la formazione professionale è, ad esempio, cruciale per una ripresa economica “non-jobless”) richiedono cambiamenti di regole almeno in misura pari agli investimenti finanziari. Richiedono liberalizzazioni mirate (la scuola, ad esempio, può contare più di taxi e farmacie) e non necessariamente privatizzazioni “non mirate”: che senso ha vendere all’incanto, tutta e subito, una ex municipalizzata per far cassa se poi i costi dei servizi per famiglie e imprese schizzano subito verso l’alto? Analogamente, può essere più utile incentivare/sollecitare le compagnie di assicurazione a sviluppare strumenti assicurativi “long term care” agganciati alla sussidiarietà di ospedali e case di riposo.
Investire nella coesione sociale suona bene e promette bene. E appare anche un modo “cattolico” di guardare alla politica economica. Però il problema resta quello di sempre: sviluppare le premesse in piani coerenti e poi realizzarli.