Poco più di un mese fa, su Il Sussidiario, segnalavamo come una “buona notizia” l’annuncio dell’accordo preliminare fra Mediobanca e Unipol per la messa in sicurezza di FonSai. In particolare, la ristrutturazione della compagnia del gruppo Ligresti attraverso l’aggregazione con un’altra compagnia italiana appariva come un’opportuna operazione-Paese dopo le perdita recente di aziende strategiche come Parmalat – o come la stessa Fiat – nei cui riassetti l’Azienda-Italia aveva investito molto. Ponevamo peraltro tre spunti di riflessione: a) la debolezza di Mediobanca – nella sua “core mission” di banca d’affari – nell’aver trascinato per un anno la crisi finanziaria e industriale di un suo storico socio-satellite; b) la pressione certa di candidature estere all’acquisto (citavamo Groupama e Munich Re), autorevolissime sul piano del business assicurativo e probabile garanzia di una maggiore linearità borsistica, anche a tutela dei piccoli azionisti FonSai; c) l’apparente caduta di un muro fra il grande capitalismo di Mediobanca e il nuovo capitalismo della Lega Coop, dopo il violento scontro su Bnl nel 2005.



A distanza di cinque settimane, dopo il clamoroso ingresso in campo di Palladio, la prospettiva analitica non ci appare stravolta. Emerge l’evidente difficoltà di Mediobanca di dominare una partita “nel proprio cortile di casa”: questa volta, peraltro, nel ruolo scomodo di creditrice di FonSai, non solo di azionista e advisor. D’altro canto (lo si notava già) per il giovane management di Piazzetta Cuccia non era – e non è – pensabile “rottamare” un personaggio del calibro di Salvatore Ligresti semplicemente tirando fuori su Il Corriere della Sera una vecchia lettera critica di Vincenzo Maranghi (e in controluce si scorgono ancora gli strappi dell’ancor recente defenestrazione di Cesare Geronzi dalle Generali).

Grandi gruppi europei (tra cui, quasi sicuramente, quelli che erano già stati avvistati all’orizzonte) continuano nel frattempo a rimanere vigili sullo scacchiere italiano delle polizze: e l’intervento di un agente speculativo come la finanziaria veneta filiata da vecchi dirigenti Mediobanca non rappresenta affatto una complicazione, anzi. Ancora, la questione-Paese resta centrale, ma con sviluppi curiosi: dietro l’imboscata di Palladio vi è chi continua a vedere l’ombra delle Generali, che – al di là delle smentite – resterebbero fortemente infastidite dalla decisione di Mediobanca di rafforzare il “pendant” FonSai con Unipol sul mercato assicurativo domestico.

Last but not least: sottrarre FonSai alla famiglia Ligresti e consegnarlo alle coop rosse è un passo più lungo e complesso di quanto potesse sembrare. Anche nell’Italia della “democrazia sospesa” di Mario Monti, bocconiano, corrierista, geneticamente mediobanchista. E poi Renato Pagliaro e Alberto Nagel, presidente e amministratore delegato di Mediobanca, non sono e non potranno mai essere Enrico Cuccia e Maranghi. Questi ultimi un industriale-finanziere come Ligresti lo cooptavano e lo sostenevano per cementare un’alleanza con un premier del profilo di Bettino Craxi.

Su un altro versante stiamo in parte assistendo a un regolamento di conti tra i “nipotini” del fondatore: tra Nagel e Pagliaro (e il direttore generale Francesco Saverio Vinci) e alcuni illustri “espulsi” da Via Filodrammatici. Il primo è certo Matteo Arpe, ex “gemello” di Nagel, allontanato senza motivazione ufficiale dopo l’apparente trionfo dell’Opa Telecom. Arpe ha avuto poi una “seconda vita” come amministratore delegato di Capitalia, soccombendo però a Geronzi e rimanendo ora confinato nel piccolo limbo di Banca Profilo-Sator. Ma anche il “primogenito” della seconda generazione Mediobanca ha fatto capolino sullo scacchiere FonSai: Gerardo Braggiotti, curiosamente caduto dopo il fallimento di un’operazione assicurativa (l’Opa di Generali su Agf). Infine, c’è Giorgio Drago: l’amministratore delegato di Palladio è il prototipo di allievo di quella selezionata “Mediobanca Academy” che sembrava destinata a mantenere nel tempo la sua integrità di lobby come network più ampi e potenti, McKinsey o Goldman Sachs. Invece no. Nel caso FonSai c’è molto dell’Italia “mutante”. E – come per la vicenda principale – è difficile scommettere sull’esito finale.