Giorgio Squinzi parla già da presidente Confindustria: più che “in pectore”, dopo che le consultazioni dei tre saggi per la successione a Emma Marcegaglia hanno rilevato una preferenza schiacciante dei membri di giunta degli industriali italiani a favore del presidente di Federchimica. L’intervento sulla necessità di razionalizzare l’università italiana e il pressing – ben più focalizzato – sul sistema bancario perché tenga aperti i canali del credito all’economia sono già indicativi di uno nuovo “stile Confindustria”. Caratterizzato da tre idee-forza concatenate: centralità della rappresentanza delle imprese italiane; partecipazione all’azione-Paese per la crescita e la ripresa; autonomia dalla politica. Non è poco, soprattutto quando il “patron della Mapei” si ritrova già tirato per entrambe le maniche della giacca.

Stefano Parisi – già direttore generale in Viale dell’Astronomia con Antonio D’Amato e ultimamente “spin doctor” di Alberto Bombassei, sfidante sconfitto di Squinzi – ha chiesto un armistizio contrattato entro il 22 marzo, quando è attesa la designazione formale di Squinzi. La “minoranza” vuole spazio nei nuovi organigrammi (e non è una pretesa in sé disdicevole), ma la butta un po’ in politica quando mette preventivamente in guardia l’“incoming president” contro cedimenti “concertatori” che – sicuramente – hanno finito per caratterizzare la presidenza Marcegaglia.

Certo, non ha torto Parisi a sbandierare una foto ancora fresca d’inchiostri: quella della Marcegaglia che si scambia convenevoli con il segretario della Cgil, Susanna Camusso, mentre poco lontano c’è il presidente dell’Abi, Giuseppe Mussari. Sono trascorsi meno di nove mesi da quando la Confindustria si fece punta di lancia di una “crociata nazionale” che finì per indebolire il governo Berlusconi alla vigilia dell’“agosto nero” per il debito pubblico italiano. Difficile, ora, immaginare Squinzi che gioca la sua poltrona e la sua confederazione sullo scacchiere politico, trascurando una “sana laicità imprenditoriale” quando le banche – non meno dei sindacati – impongono un confronto duro. Ma difficile anche che i timori di Parisi (e Bombassei) si rivelino fondati sul versante più squisitamente sindacale: con un’adesione acritica degli industriali alle scelte del governo tecnico, sulla scia della concertazione-Ciampi del 1993 (questo semmai è stato l’atteggiamento dell’ultima Marcegaglia).

Per questo è apparsa poco “squinziana” anche la risposta del direttore generale uscente di Confindustria, Giampaolo Galli, uomo cresciuto nella cultura della concertazione con Innocenzo Cipolletta. In parte strumentale la posizione di Bombassei – “falco” di Federmeccanica sull’articolo 18, ma in realtà orfano della super-concertativa Fiat (a fini propri, tipicamente con la Cgil); strumentale quella di Galli, che tende a far passare per “concertativo” un atteggiamento non massimalista di Squinzi sulla riforma del mercato del lavoro. Ma un conto è pretendere (politicamente) lo “scalpo dell’articolo 18”, occhieggiando magari alla campagna elettorale del 2013; un conto è affrontare i temi cruciali della flessibilità del lavoro in entrata e in uscita dalle aziende in chiave non ideologica e con una reale attenzione agli equilibri sociali: che è la vera posizione di partenza del neo-presidente di Confindustria.

Il quale – non c’è dubbio – non avrà timori di differenziare i suoi punti di vista dal governo tecnico se questi non dovessero rispondere alle aspettative di tutta l’industria italiana. E industria vuol dire impresa manifatturiera privata: una multinazionale tascabile come la Mapei. Niente Stato, niente Borsa. Ma la rivelazione “per fatti” dello Squinzi-pensiero è ancora agli inizi.