Sbaglierebbe chi attribuisse a una difesa corporativa le dimissioni annunciate dall’intero comitato di presidenza dell’Abi, capeggiato da Giuseppe Mussari. Il problema non è il merito del pressing contenuto dal maxi-emendamento del governo al decreto liberalizzazioni sul taglio di ogni commissione dalle operazioni di prestito bancario. Il problema è il metodo, cioè la demagogia “anti-bancaria” (gemella – in fondo – di quella “anti-politica”) alla base di un provvedimento adottato da un esecutivo sedicente “tecnico”, popolato di alti esponenti dell’establishment bancario come lo stesso premier Mario Monti, il suo viceministro dell’Economia Vittorio Grilli, il super-ministro per lo Sviluppo Corrado Passera e anche il ministro del Welfare Elsa Fornero. Si è mai visto un governo tecnocratico cedere a una campagna di stampa? Eppure è quello che è successo: e non c’è del resto da stupirsi se il primo ad allinearsi è stato il neo-governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco.

Le polemiche sul “credit crunch” (stretta sul credito) hanno trasformato in giudizio di parte un fatto: la compressione degli impieghi bancari. Che ha anzitutto una causa: la recessione (se il Pil è annunciato in ulteriore frenata dell’1,5%, dopo quella del 2011, è plausibile attendersi che i crediti all’economia non progrediscano: questo, anzitutto, perché le imprese stesse rallentano la domanda di finanziamenti per investimenti e gestione). La concausa – non meno importante – è che anche le banche italiane (su pressione dell’Eba, della Bce, del Fmi, di tutti i governi e le authority) stanno riequilibrando i loro bilanci riducendo la leva: rafforzando la base patrimoniale e selezionando i rischi (e i contribuenti italiani dimenticano che – a differenza di quelli americani, inglesi, tedeschi, inglesi, belgi, ecc. hanno potuto evitare salassi per salvare le banche del Paese). Invece il sistema bancario è diventato il principale imputato delle attuali difficoltà dell’Azienda-Italia. E l’impressione è che – una volta di più – anche in questo caso il fragile vaso di coccio italiano sia “finito in mezzo” a giochi più grandi e pesanti; com’è stato quest’estate lo “spread” italiano nel mezzo della furiosa “battaglia dell’euro”.

Appena ieri la Bce ha nuovamente rifornito di liquidità il sistema bancario europeo (tutto, non solo quello italiano). Un’asta – quella di Francoforte – che ha suscitato rinnovate perplessità: soprattutto da parte della Germania, che vede nelle ondate di “easy money” decise da Mario Draghi qualcosa di pericolosamente vicino al “quantitative easing” della Fed appoggiato da Wall Street, l’esatto contrario della ripresa “via austerity” immaginata a Berlino. Che non ha tutti i torti: sui mercati gli addetti ai lavori sanno benissimo che la liquidità “gratis” (erogata dalla Fed, prima che dalla Bce) non serve a rilanciare il credito alle imprese, ma a sostenere le banche (tutte alla fine “troppo grandi per fallire”).

Poi ciascun caso-Paese ha il suo esito specifico: negli Usa la liquidità serve alle investment bank sopravvissute per speculare; nell’Eurozona la grandi banche sostengono i titoli sovrani sotto attacco (magari da quelle stesse banche Usa); nell’Euramerica in recessione tutti, in cuor loro, vorrebbero un po’ di “sana” inflazione per tonificare (o “drogare”) il ciclo economico e scontare un po’ gli enormi debiti accumulati qua e là, in bilanci pubblici e bancari.

Tutto questo, però, si è tradotto nella miserevole storia della “banche italiane che strozzano le imprese italiane”: un po’ come la salvezza dell’euro sembra dipendere dall’abolizione dell’“article eighteen” in Italia. La presidenza dell’Abi, dimettendosi in blocco, ha semplicemente avvertito l’opinione pubblica nazionale che non ci si può prendere in giro all’infinito. Soprattutto: non può farlo un governo “di salute pubblica”. Che finora ha varato solo una banale manovra fiscale e ha allungato “per decreto” l’età pensionabile. Se il presidente della Repubblica ci nomina senatori e vita, siamo capaci quasi tutti.

Premier Monti, ministro Passera, dite qualcosa di veramente “tecnocratico” (in attesa che il nuovo presidente di Confindustria, con ogni probabilità Giorgio Squinzi, restituisca credibilità anche alla lobby degli imprenditori).