Where’s Corrado, dov’è finito il super-ministro Passera? Va bene il silenzio-dissenso sull’incaponimento di Mario Monti ed Elsa Fornero sull’articolo 18 e sui “licenziamenti sommari”: impuntatura professorale e medio-borghese,  molto subalterna all’ideologia mercatista che vuole cavalcare la propria stessa crisi per dare scacco matto alla politica e alla società.

Non è quindi casuale neppure il distacco del banchiere in odore di premiership nell’Italia-che-sarà, dopo le elezioni 2013: presentissimo per questo a tutto ciò che è dichiaratamente “cattolico” (non ultimi i seminari dell’Ucid, l’inaugurazione dell’anno accademico della Cattolica a Brescia, la presentazione del libro di don Vincenzo Paglia, leader spirituale della Comunità di Sant’Egidio). Ma l’ex amministratore delegato di Intesa, oggi reggente di Sviluppo e Infrastrutture,  non può pensare di non sporcarsi mai le mani con “qualcosa di tecnico”.

Monti ha timbrato il cartellino del premier-tassatore e ha dato alla Fornero la stessa copertura che il vero capo del “governo del Presidente”, Giorgio Napolitano, ha garantito all’esecutivo sul pesantissimo intervento sulle pensioni (copertura poi sostanzialmente tolta sull’articolo 18). Invece, se agli italiani parlate di “decreto-liberalizzazioni” nove su dieci ricorderanno sempre la “lenzuolata Bersani” del Prodi-2: quella che ha tolto i 5 euro di gabella sulle ricariche dei cellulari e ha introdotto la portabilità dei mutui, imponendo alle banche una vera regolata “di mercato”. Invece, la stretta immaginata da Monti & Passera sulle commissioni bancarie rimarrà con tutta probabilità sulla carta, al pari delle crociate contro tassisti, farmacisti, notai: malconcepita e solo punitiva l’offensiva contro il credito; evanescente e propagandistico il tiro casuale alle corporazioni.

Ma da dove può (ri)partire una “politica industriale”, indispensabile al profilo dello stesso Passera nei dodici mesi che precederanno il voto? Sbaglierebbe, Passera, se si concentrasse solo sulla classica “riapertura dei cantieri”: su miliardi di euro per le grandi opere che, peraltro, sarebbero mobilitabili non dallo Stato, ma dalla Cassa depositi e prestiti (ancora banche, Fondazioni, ecc.). L’Italia ha bisogno di infrastrutture più efficienti? Nessuna ne dubita e la ripresa non sarà certo un pranzo di gala. Ma l’Italia che ha sempre sbertucciato il berlusconiano Ponte sullo Stretto e i suoi immobiliaristi all’amatriciana, vuol ricominciare dal solito impasto di asfalto, mattoni e appalti?

Il nuovo presidente della Confindustria, Giorgio Squinzi, nella sua prima uscita ha detto che se pensa a un’emergenza per l’Azienda-Italia non gli viene in mente l’articolo 18, ma il costo dell’energia. Può darsi che abbia voluto rintuzzare subito qualche polemica post-elezione sull’appoggio datogli dai colossi pubblici Eni ed Enel; sta di fatto che per il nuovo leader degli industriali è stata più grave la sconfitta registrata a Brindisi con gli stop burocratici al rigassificatore affidato a British Gas piuttosto che quella accusata – alla fine sia dalla Fiat che dalla Fiom – nel non lontano stabilimento di Melfi.

Il vero “compito a casa” di Passera è questo: intervenire subito sul costo delle forniture energetiche per tutte le aziende italiane. E a questo fine, non basta l’impegno sul terreno dell’ingegneria finanziaria, come nei primissimi giorni del mandato ministeriale per sciogliere la partita Edf-A2A su Edison; oppure per inserire lo sganciamento di Snam Rete Gas dall’Eni nel manifesto liberalizzatorio, ma nel medio termine e con tutt’e due gli occhi puntati sulla Borsa.

Questo è il modo di procedere del “mini-Passera” di palazzo Marino, lo spericolato assessore Bruno Tabacci, infervorato a (s)vendere quello che non dovrebbe essere venduto: come la quota di A2A che, invece, dovrebbe essere una leva per costruire una “E.on italiana”, vera concorrente di Eni e Enel e alternativa di tutte le British Gas nella costruzione di infrastrutture energetiche. Certo i  politici – al governo e nei Comuni, in una democrazia di mercato  – dovrebbero delineare strategie, fissare percorsi e quadri di regole, incentivi e freni; e controllare infine quello che fanno le aziende di cui sono eventualmente ancora  azionisti strategici. Perché Passera non riscrive un decreto-liberalizzazioni aprendo il  mercato della produzione e distribuzione energetica?

Ma su un piano più squisitamente politico-economico, il ddl Fornero sul mercato del lavoro è debole perché strategicamente vecchio e monco. A parte il mantenimento di un muro anacronistico fra settore privato e Pubblica amministrazione (questa sì è la vera azienda in grave crisi economica), continua a occuparsi di un’economia classista, fatta di padroni e lavoratori dipendenti, questi ultimi divenuti precari o disoccupati cronici proprio all’interno di una logica produttiva ancora lontana da una realtà più che emergente: tutti siamo e saremo sempre di più lavoratori indipendenti, come minimo imprenditori di noi stessi.

Certo che di fronte al 30% di disoccupazione giovanile non si può giocare a tutto campo per mezzo campionato, ma bisogna vincere qualche partita subito, con catenaccio e contropiede. Certo che ci vorrà tempo per ridimensionare un mostruoso sistema universitario che ospita confortevolmente “over 25” in attesa di  diventare filosofi da call center. Certo che a promuovere per via fiscale l’imprenditoria giovanile – o la neo-imprenditoria senile degli “over 50” licenziati – si rischia di regalare sgravi alla “ndrangheta dei colletti bianchi”: peggio delle migliaia di falsi invalidi prodotti da un’altra stagione assistenziale.

Però, un ministro dello Sviluppo che si candida a premier (politico) non può non sapere fin da oggi che si propone per la guida di un Paese di “imprenditori di se stessi”: che è e resta cosa diversa da un “popolo di partite Iva”, folto, alla fine, di evasori con la giustificazione pronta. La “politica industriale” è, al nocciolo, fare sussidiarietà a milioni di italiani che dovranno sempre più cavarsela da soli: che il problema dell’articolo 18 non l’avranno mai e non hanno neppure bisogno di un – troppo semplice – “decreto semplificazioni”.