L’ennesimo scontro feudale su Rcs ha occupato le cronache finanziarie pasquali senza mettere del tutto in ombra il blitz di Bernardo Caprotti sulla sua Esselunga. Due vicende non così lontane, esemplari invece di un momento. La grande Erre Verde – tavola rotonda e “Sacro Graal” del capitalismo nazionale, ormai più di Mediobanca stessa – ha fatto nuovamente mulinare pacchetti a prezzi da amatore: rigorosamente fuori Borsa, anche se Piazza Affari ha regalato al titolo un balzo tanto pronunciato quanto virtuale (il flottante è ormai scarsissimo). L’editrice de Il Corriere della Sera ha chiuso il 2011 in forte perdita: hanno pesato le svalutazioni degli investimenti sbagliati in Spagna, ma anche la pressione della recessione su fatturato e margini, nonché il fiatone con cui un gruppo-media tradizionale sta affrontando il cambiamento strategico della sua industria.

Eppure, quasi trent’anni dopo l’uscita di scena della P2 e dell’Ambrosiano di Calvi e l’avvento della famiglia Agnelli e di Mediobanca, Rcs non cessa di essere lo scacchiere di eterne guerre calde e fredde: nelle quali i quattrini scorrono a fiumi sulla testa dell’azienda per questioni di puro potere e prestigio; mai nelle sue vene per sostenere un progetto imprenditoriale.

Diego Della Valle, il grande perdente del round appena concluso, lamenta con qualche ragione di essere l’unico vero campione dell’imprenditoria nazionale in un patto dominato da banchieri come Renato Pagliaro di Mediobanca o Giovanni Bazoli di Intesa Sanpaolo; o da un Agnelli di quinta generazione come Yaki Elkann, presidente di una Fiat in disarmo. Però anche il “patron” di Tod’s ha investito in Rcs, salendo fino al 5% a valori fuori mercato, per perseguire piani niente affatto da editore puro: riportare il Corriere per la terza volta sotto la direzione di Paolo Mieli e orientarne – d’intesa con Luca di Montezemolo – la campagna mediatico-elettorale 2013 in misura prevedibilmente meno ancillare al governo tecnico di Mario Monti di quanto stia facendo il quotidiano di Via Solferino sotto la guida di Ferruccio De Bortoli.

Per il resto è tutto vero. Il pacchetto del 16,5% messo assieme da Giuseppe Rotelli dopo l’ultimo acquisto dal gruppo Toti è – in termini pressoché reali – lo stesso che aveva rastrellato sette anni fa l’immobiliarista Stefano Ricucci durante la clamorosa estate delle Opa su Antonveneta e Bnl. Personaggio certamente più pittoresco e disinvolto, Ricucci, rispetto al grande imprenditore della sanità lombarda. Tuttavia anche Ricucci, a modo suo, era un finanziere “di sistema”, fortemente sostenuto alle spalle da istituti bancari, non sideralmente lontano dal fresco salvatore del San Raffaele.

È vero anche che ci sarebbero ancora tutte le ragioni per pretendere dalla Fiat la vendita della quota-gioiello in Rcs, dopo le erogazioni di ingenti sussidi statali e di prestiti preferenziali da parte delle grandi banche. È curioso non da ultimo, che nel patto Rcs sieda in questo periodo il direttore generale di A2A: rappresentante di quel capitalismo “municipale” che l’ortodossia del Corriere ha sempre ufficialmente aborrito. Fuori dal patto, intanto, i Benetton non sono più i campioni del made in Italy che vent’anni fa piacevano a Romano Prodi: sono gli alleati delle Fondazioni bancarie nel controllo di Autostrade, il più simbolico degli ex monopoli pubblici generosamente ceduti ai privati dai tecnocrati di turno.

Del resto Rcs assomiglia parecchio al suo Paese, oggi affidato non a caso al guru corrierista Mario Monti. Un’Azienda-Italia in forte crisi gestionale, nella quale però tutti si concentrano sui patrimoni: sul trasferimento forzoso per via fiscale della ricchezza privata a tampone delle falle del debito pubblico; sulle redistribuzioni statiche di reddito (pensioni e riforma del mercato del lavoro); sulle riforme concepite più per soddisfare mediaticamente “i signori dello spread” dei mercati globali che per scongelare gli investimenti privati e la fiducia degli imprenditori italiani . È una Rcs che avrebbe bisogno di nuovo management e di un aumento di capitale: invece debordano le interviste tattiche degli azionisti e in Borsa si vocifera di Opa.

A Rcs, chissà, servirebbe un imprenditore come Caprotti. Quando è partito, lui non poteva sbandierare il “brand” del Corriere, né contare su soldi delle grandi banche. Un caratteraccio, Caprotti: basta leggere il suo libello “Falce e carrello”, scritto a 80 anni suonati contro l’eterno nemico Coop. Nessun particolare stupore se, a 87 anni, ha deciso di reintestarsi “brevi manu” il controllo della sua Esselunga, dopo aver da tempo “sfiduciato” il primogenito Giuseppe come successore imprenditoriale. Ma la notizia è un’altra e non è affatto buona: Caprotti avrebbe deciso di cedere alle lunghe lusinghe di WalMart: il leader Usa – cioè mondiale – della grande distribuzione.

Anche qui nessuna sorpresa: in Italia Esselunga è ormai sinonimo di “supermercato” , logico che WalMart sia pronta a staccare un assegno in bianco a otto o nove zeri in dollari. Una cifra che finirà più facilmente parcheggiata presso qualche gestore internazionale (magari a speculare contro i Btp) che reinvestita in iniziative imprenditoriali in Italia. È questo che il governo tecnico intende per “attirare i capitali internazionali in Italia”? Intanto un irriducibile “padrone” meneghino sembra essersi definitivamente stancato: non solo dei figli (questo può perfino esser scritto nel copione), ma anche del suo Paese. Quello delle solite Coop. Ma forse anche quello del solito Corriere.