Dario – mente e cuore delle sezioni in lingua estera del Sussidiario – è convinto che Gianni Credit (GC) sia stato negli ultimi tempi eccessivamente indulgente verso le banche italiane: anche solo con qualche silenzio di troppo, magari in omaggio al suo pseudonimo-patronimico. Il “sentiment” di Dario – che ha lavorato a lungo in un’azienda industriale milanese – va preso sul serio: non solo perché riflette un umore ormai maggioritario – ma non per questo superficiale o qualunquista – nell’opinione pubblica nazionale.

È anzitutto difficile, caro Dario, stabilire quanto le banche abbiano paradossalmente sofferto della nascita del cosiddetto “governo dei banchieri”: di suoi errori non necessari (come il tentativo malriuscito di crociata contro le commissioni creditizie) sfociati però in un clima di “caccia al colpevole”. Se la recessione morde, se la ripresa non c’è e non s’intravvede – GC lo ha già notato sul Sussidiario – il responsabile ultimo non va cercato fra le banche nazionali. Anzi, GC lo ripete da tempo: le banche italiane sono state per gran parte vittime della grande crisi bancaria globale e, quel che più conta, hanno pure resistito alla bufera.

Lo hanno fatto sostanzialmente senza aiuti pubblici (a differenza di quanto accaduto in Usa, Francia, Germania, Olanda, Spagna, ecc.), grazie alla tenuta dei propri bilanci e alla capacità di ricapitalizzare su mercati difficili: non avendo ceduto fino in fondo, tra l’altro, al lungo richiamo della foresta globale riverberato dalle centrali accademiche e mediatiche nazionali.

È stata l’ortodossia liberista e globalista ad annegare l’attività bancaria (intermediazione del risparmio delle famiglie in credito alle imprese) nella “finanza di mercato” (ricerca del rischio/profitto speculativo a breve termine). È così che le banche sono state trasformate in “imprese come le altre”, che potevano fallire come le altre: anzi, altrove sono infine fallite davvero, salvo poi scoprire che la moneta e il credito erano di tutti, “troppo importanti per fallire”, e dovevano essere salvate con centinaia di miliardi di dollari e di euro strappati ai bilanci di Stati e banche centrali.

Mario Monti – maturato nel thatcherismo-reaganismo non meno dell’attuale presidente della Bce, Mario Draghi – ha insegnato questo per trent’anni alla Bocconi, ha sempre scritto questo negli stessi anni su Il Corriere della Sera. Ora è un Premier in crisi ideologica, prima che politica: è chiaro che la ripresa andrà robustamente stimolata per via pubblica (ad esempio, con i “tesoretti” della “nuova Iri”, la Cassa depositi e prestiti). È altrettanto evidente che ha bisogno di un sistema bancario “al servizio del Paese”. Ma questo poteva accadere in altri anni, con altri economisti-politici-tecnocrati: un Amintore Fanfani, pensatore dell’“economia sociale di mercato”; o un keynesiano come Pasquale Saraceno (non a caso ricordato oggi a Milano da un seminario della Fondazione Cariplo).

Non lo può fare impunemente un ex commissario all’Antitrust dell’Ue come Monti, alla durissima uscita dall’implosione della turbo-finanza. Non lo può sostenere uno per il quale la ricetta unica è sempre stata togliere agli Stati ogni centesimo, ogni libertà di andare in deficit, ogni braccio d’impresa, ogni riserva amministrativa sull’economia. Tanto più che – giusto o sbagliato – il rigore finanziario è pure la ricetta inderogabile del cancelliere Angela Merkel per tutti gli iscritti all’Ue. In ogni caso: per Monti e per le sue confraternite è soltanto il mercato che “non può non funzionare” nel rilanciare l’economia. Ma oggi il mercato è paralizzato da una crisi generale di fiducia (consumi, investimenti, lavoro, rating sovrani, credito privato).

Di questa crisi di fiducia (e di idee) – tornando alle questioni poste da Dario – le banche italiane sono e restano vittime. I mercati interbancari sono congelati e la Bce, di fatto, è la “banca delle banche”. La recessione ha incrementato le sofferenze creditizie e la pressione speculativa sull’Italia ha aumenta il costo della raccolta. Lo “spread” a 575 – proprio nella fase conclusiva dell’esercizio – ha obbligato le banche italiane a svalutare i titoli di Stato nazionali nei portafogli: quantità in aumento vista la ruvida “moral suasion” di Governo e Bankitalia, per il rischio che qualche asta andasse male e la spirale investisse l’intero sistema-Paese.

In quelle stesse settimane, l‘Eba ha condotto uno stress-test e ha riservato alle medesime banche italiane giudizi immotivatamente più severi sulla solidità relativa rispetto ai competitori europei, proprio per l’effetto-congiunturale della speculazione sugli asset. Per questo – anche negli ultimi giorni – le banche italiane hanno fortemente sofferto in Borsa: come del resto era, paradossalmente avvenuto, quando i mercati (e le stesse agenzie di rating) consideravano un investimento più attraente investire nelle banche salvate dall’ingresso dello Stato nel capitale piuttosto che in quelle che erano rimaste in piedi sulle loro gambe. In ogni caso si è udito al listino lo stesso “refrain”: una banca che cede in Borsa è una “cattiva banca”.

Lo sviluppo di “Basilea 2 e 3” – sistema di vigilanza rigidamente ispirato al globalismo finanziario pre-crisi – impone alle banche di alzare i coefficienti patrimoniali, di seguire criteri più stretti per erogare crediti (soprattutto alle imprese minori). Se i rubinetti dei prestiti rimangono aperti solo “per chi non ne ha bisogno” (cioè per le imprese che si difendono) è anche a causa dello sviluppo di questo processo. Basilea 3 (che porta la firma dell’italiano Draghi, non dimentichiamolo) spinge le banche, infine, a tenere sotto controllo il loro equilibrio di liquidità.

Per questo ai lettori-elettori-imprenditori è stata raccontata una bugia parecchio pietosa quando le due maxi-aste della Bce hanno iniettato decine di miliardi di liquidità anche nelle banche italiane. Ma essi non servivano per sostenere il credito, quanto per reggere gli acquisti ingenti di Bot e Btp (in asta o anche sul mercato secondario, laddove l’intervento Bce non poteva che essere temporaneo e eccezionale). Oppure – come del resto la Fed ha fatto attorno a Wall Street – i “bagni di liquidità” servono tuttora per tenere i sistemi bancari “in sicurezza”: ma al prezzo certamente, di lasciare che i banchieri d’affari, soprattutto, alimentino la speculazione di Borsa e realizzino profitti in parte artificiali (fenomeno delle ultime settimane è perfino la ripartenza dei mutui per rilevare ingenti patrimoni immobiliari a prezzi di realizzo).

Nuove ondate di bonus ai Ceo delle grandi banche, infine, contribuiscono certamente, caro Dario, a fare giustamente indignare gli “indignados” di tutto il mondo. Ma i sistemi bancari – non diversamente da quelli mediatici – sono già sotto processo strutturale. Ne sanno qualcosa i “bancari”: professione – come del resto quella del giornalista – che nell’Italia recente ha sempre goduto di buon pedigree sociale ed economico. Ora bancari e giornalisti sono entrambi premuti da ogni versante: l’occupazione, le retribuzioni, in ultima analisi il rapporto qualità/prezzo del loro contenuto professionale. Il Sussidiario è un tentativo circostanziato di risposta a una crisi complessa del sistema mediatico: sul piano del modello d’impresa e su quello della scelta di contenuti, dello stile, delle tecnologie. Anche le banche – come i media – hanno bisogno di un “new deal”, di “nuovi modi”: lontani da un “modo unico” che – oltre ad aver mostrato limiti a lungo negati – non era comunque parte della cultura socio-economica italiana (europea). Non diamo in pasto una seconda volta le banche italiane al “falò” globalista.