Il professor Mario Monti “vende” l’Azienda-Italia agli investitori cinesi (globali), decantando le virtù delle riforme imposte dalla Bce e dai cosiddetti “mercati”, a cominciare dai “licenziamenti facili”. Michelangelo Manini, il “patron” della Faac prematuramente scomparso, lascia l’azienda in eredità alla Diocesi di Bologna. Non sembra una coincidenza da poco nell’Italia del 2012: quella che nei prossimi mesi è chiamata (per l’ennesima volta) a reinventarsi. A dire a se stessa chi è, cosa vuol fare, di cosa vuole campare, da chi e con quali regole vuol farsi governare.
Il premier tecnico – “apolitico” e in fondo “anti-politico” – sceglie consapevolmente un “forum” di businessmen cinesi per teorizzare: «Ci sono due benchmark per il successo delle nostre politiche: il primo è ovviamente il calo dello spread con i Bund, il secondo l’interesse delle aziende e delle istituzioni cinesi a maggiori investimenti finanziari e industriali in Italia». Ed è ovviamente presso gli uomini d’affari cinesi – un “capitalismo” poco coniugato con “la democrazia di mercato” – che Monti perora mediaticamente la causa della riforma del mercato del lavoro in Italia: migliaia di chilometri lontano dal Parlamento italiano, al quale voleva imporre un decreto; così come un altro premier spazientito, il 3 gennaio 1925, voleva trasformarlo in un “bivacco di manipoli”.
Senza sdegni o sarcasmi, i fatti sono questi: un capo del governo considera trasparentemente suo compito prioritario andare a caccia della benevolenza degli investitori di un capitalismo non democratico (almeno Vladimir Putin, grande amico del past-premier Silvio Berlusconi, ha dovuto ripetutamente fare i conti con le urne, per quanto con modalità sospette). Per la Goldman Sachs e per le sue sorelle, del resto, il denaro non ha odore o passaporto sui mercati globali, programmaticamente dominanti su politica e società: esattamente come Luca di Montezemolo – e una parte dell’opinione pubblica con lui – considera normale la sua candidatura a un ruolo politico-istituzionale in Italia e nel contempo la rappresentanza degli interessi francesi nell’Alta velocità ferroviaria o la predesignazione a consigliere UniCredit da parte del fondo sovrano di Abu Dhabi.
La Faac è un “made in Italy” ancor più di frontiera di quello della Nutella o delle Tod’s. Nell’automazione industriale, l’Azienda-Italia si misura con la “Deutschland Ag” sullo stesso terreno. È il medesimo “quarto capitalismo” della Mapei di Giorgio Squinzi, competitiva negli Usa come in Asia. E così come il neo-presidente di Confindustria si è sempre rifiutato di considerare la finanza di mercato anche solo un “corsia veloce” per sviluppare la sua imprenditorialità, Michelangelo Manini – morto a 50 anni dopo lunga malattia – non ha pensato a un fondo di private equity per il futuro della sua azienda e magari pure dei suoi eredi.
No, ha affidato la Faac a uno “stakeholder” molto particolare, ma molto tradizionale: la Chiesa, anzi il suo vescovo. Il quale, a differenza di tanti suoi colleghi o predecessori, si trova anche lui sfidato a “fare del bene” in modo nuovo: non limitandosi a distribuire a dovere la rendita di un patrimonio, ma anzitutto mantenendo integro e redditizio un investimento “ongoing”, “funzionante” come dicono gli analisti finanziari.
Non è peraltro una novità assoluta: i banchi di pegno – archetipi del credito europeo, anche a Bologna – sono stati inventati dai francescani per aiutare i piccoli artigiani a sostenere le loro aziende in periodi di crisi, lontano dalla “finanza di mercato” di allora, che si chiamava “usura”. Certo Menini ha lasciato in eredità molto più che una multinazionale tascabile con mille dipendenti. Ha lasciato una provocazione a 360 gradi: al cardinale Carlo Caffarra, anzitutto, chiede di dimostrare che si può essere un buon azionista di riferimento di un gruppo industriale europeo in questa difficile congiuntura, senza essere un hedge fund.
Ma nell’Italia “sospesa”, “in transizione”, il caso Faac sollecita risposte politico-culturali anche più alte: la priorità per la ripresa è davvero “piacere ai mercati”, invogliare gli investitori esteri, varare l’abolizione dell’articolo 18 “tutto, maledetto e subito”? Oppure si può – si deve – far leva sul “capitale” (finanziario, umano, sociale) esistente nel Paese, puntando sulle persone e sulle comunità, non rottamandole a beneficio dei cosiddetti “mercati”? Monti ha cominciato la sua personale campagna elettorale su un’isola cinese. Vediamo da dove e come gli rispondono i partiti vecchi e nuovi.
P.S.: Il Corriere della Sera ha affidato una sua “inchiesta” sul mercato del lavoro a Pietro Ichino, professore universitario e senatore Pd. Nel “new normal” della democrazia sospesa e dintorni può succedere anche questo: che i giornalisti vengano bypassati – “disintermediati” direbbero gli economisti – sui loro stessi giornali dai politici, dai “tecnici di area”, dai super-consulenti. Può succedere. Ai giornalisti “rottamati” dai loro stessi direttori/editori potrebbe a questo punto essere riservata una quota – non importa il colore – nelle liste ispirate al “Porcellum-bis”, alle elezioni politiche della prossima primavera.