Il passaggio di proprietà di Tim (editore di La7) dal gruppo Telecom lo scorso fine settimana era dato per imminente e tutti i “rumor” concordavano nell’indicare il probabile acquirente nel gruppo De Benedetti (editore di Espresso-Repubblica). Il cda di Telecom, mercoledì, ha confermato il progetto di spin-off del polo editoriale, ma come passo formale: senza i tempi e le destinazioni finali spasmodicamente attesi. E tutto questo dopo che un coro di voci-Vip (da Gad Lerner a Enrico Mentana) si era subito levato dall’interno a difesa dell’“autonomia” del cosiddetto “terzo polo tv” a fianco di Rai e Mediaset.

Nessuna sorpresa che giornalisti di primo livello, in “parcheggio di lusso” fuori dal duopolio tv, abbiano mostrato contrarietà a un riposizionamento di La7: un percorso chiaramente prodromico a nuovi tagli di costi (Tim continua a non essere in equilibrio economico), ma soprattutto a un ripensamento di strategia. Già un anno fa, del resto, un “anchorman” del calibro di Michele Santoro aveva allungato la sua ombra su La7, prima di tentare l’avventura di Servizio Pubblico, provvisoriamente fuori dai grandi circuiti.

La novità – per ora infatti non realizzata – di una La7 ricollocata altrove da Telecom continua però ad annunciarsi come qualcosa di assai più rilevante di semplice “tourbillon” di poltrone e contratti fra primedonne del video. E non è un caso che il passaggio “stra-annunciato” a Carlo De Benedetti sia sfumato (almeno per ora) nelle stesse ore concitate seguite al voto amministrativo. L’ipotesi di La7 a Espresso-Repubblica (forse oltre le intenzioni stesse di De Benedetti, come si è potuto constatare) appariva infatti coerente con un’evoluzione del quadro politico in senso “tripolare”: una prospettiva che ora sembra improvvisamente non più accreditata perfino da Pierferdinando Casini, leader designato dal “terzo polo” in formazione.

Mediaset saldamente ancorata al centrodestra, Rai tradizionalmente in quota al premier (in questo caso al tecnico Monti, considerato “genitore” nobile del terzo polo); La7 al centrosinistra, naturalmente affidata a un editore più robusto e profilato dell’attuale Telecom, commissariata dalle banche: questo era – e rimane – il disegno di un nuovo “tripolio”, implicito nel ricollocamento di La7. Cosa di meglio, del resto, della “corazzata” di Largo Fochetti per immettere in una rete tuttora virtuale prestigio e investimenti, capitali, giornalisti e, non da ultimo, strategie e ambizioni politico-finanziarie di ampio respiro, paragonabili a quelle del “partito Monti” e della galassia berlusconiana? Ma il primo a non esserne convinto, è parso fin dall’inizio, lo stesso De Benedetti, che pure non ha mai rinnegato la famosa “tessera numero uno del Pd”.

Certamente l’Ingegnere ne ha approfittato per ridare smalto alla sua visibilità, ma quasi sempre per ricordare che lui La7 si era offerto di comprarla un anno fa. Oggi, ha lasciato intendere, potrebbe al massimo studiare un’alleanza nelle infrastrutture, senza impieghi di “cassa”. E senza certamente accollarsi “tout court” gli stipendi di Lerner e Mentana, di Lilli Gruber e Daria Bignardi, di Corrado Formigli, Luca Telese e Nicola Porro e di tutto il resto: proprio ora che anche a Espresso-Repubblica – sotto l’occhio e la mano dell’inflessibile Ceo, Monica Mondardini – si prepara una nuova stagione di tagli e prepensionamenti. Ma, soprattutto, perché il gruppo De Benedetti dovrebbe puntare con strumenti “old” (l’editoria come “costo della politica”) su uno schieramento politico “old”, dal futuro incerto fra le lotte intestine Pd e i pressing assortiti di Grillo, Vendola, Di Pietro, Tosi?

Nei prossimi dodici mesi il pallino sul beauty contest del digitale terrestre ma soprattutto sullo scacchiere dell’energia (strategico per gli interessi di Cir) lo avrà in mano il ministro dello Sviluppo, Corrado Passera: peraltro osteggiato dal premier Monti in quanto candidato “in pectore” del centrodestra. E lo stesso “mini-ministro” del Comune di Milano, Bruni Tabacci – su cui i “media” debenedettiani avevano un po’ investito – si sta confermando tanto chiassoso quanto inconsistente nel condurre i giochi su A2A-Edison. Passata l’assemblea, la governance e le strategie della maggiore super-utility italiana torneranno a giocarsi sull’equilibro fra i due Comuni azionisti paritari (Milano e Brescia) e fra i due docenti dell’Università Cattolica che presiederanno i due board: Pippo Ranci la sorveglianza, Graziani Tarantini la gestione.

La stessa partita della sanità (della sanità lombarda) non è ancora cominciata e non è certo che si risolverà in tempi brevi secondo il puntuale copione mediatico-giudiziario che vedrebbe la rapida uscita di scena del presidente della Lombardia, Roberto Formigoni, e una grande spartizione di spoglie. Proprio ieri il gruppo Rotelli ha annunciato la nuova struttura di vertice del polo San Raffaele: un esito più “soft” di quanto fosse prevedibile pochi mesi fa.

Nel frattempo – ai tempi supplementari ma non oltre la seconda convocazione assembleare del 6 giugno – la Rai dovrà essere dotata di un nuovo vertice. E Monti non potrà non esercitare questo suo “golden voucher” per consolidare le basi fragili del suo “governo di fine legislatura”. E con lui le forze politiche in rimescolamento non potranno non fare i conti con il “qui e ora” della tv “bipolare” per impostare una campagna elettorale lunga e inedita: perché in essa dovranno prendere forma non solo i programmi, ma i contenitori stessi che si affronteranno nella primavera 2013 (nel voto politico, in contemporanea a quello tedesco; e in quello per la nuova presidenza della Repubblica, appena eletto il nuovo Parlamento).

Appare comunque difficile che, a questo punto, Monti possa chiamare alla presidenza Rai – magari con più poteri – quel Ferruccio De Bortoli che sembrava il candidato unico di un fronte terzista dai profili definiti al punto da farsi consegnare Viale Mazzini dal premier tecnico. Più facile che la spunti un giornalista che del Corriere ha potuto essere soltanto condirettore, ma che ha diretto poi il Messaggero, L’Espresso, La Stampa e l’Ansa, presiedendo ora la Fieg: Giulio Anselmi, dal background politico più saldamente colorato dal centrosinistra. E non è affatto escluso che – può darsi con un raggio d’azione più limitato – Lorenza Lei possa rimanere direttore generale “di garanzia“ del centrodestra.

Tra “bipolarismo superato” e “tripolarismo abortito”, sarà poi curioso vedere come verrà ricostruito in Rai l’organigramma operativo; fra direzioni di rete e di testata: e il cantiere della Terza Repubblica appare fin d’ora un richiamo naturale per direttori di grandi quotidiani (come il casiniano Roberto Napoletano, ora al Sole e Mario Calabresi, “democrat” alla guida della Stampa, inizialmente destinato al Corriere della Sera, se De Bortoli fosse diventato presidente operativo di Rcs o della stessa Rai).