“Questa non sarà la Confindustria di Giorgio Squinzi, sarà la Confindustria di tutti gli imprenditori veri: grandi, medi e piccoli. Sarà la Confindustria di tutti quelli che credono nel futuro della propria impresa e nel futuro del proprio Paese”. È in quel “veri”, la chiave – completamente anti-retorica – di quella che invece si annuncia già come la “Confindustria di Giorgio Squinzi”. Due righe inserite fra le primissime del discorso pubblico del nuovo presidente, la cui nomina è stata formalizzata ieri da oltre il 94% dei voti assembleari della Confederazione. Una maggioranza plebiscitaria che ha archiviato il confronto serrato che, due mesi fa, aveva visto Squinzi prevalere di misura in Giunta sul “competitor” Alberto Bombassei. Il passaggio non sembrava del tutto superato ancora a Pasqua, quando Squinzi ha presentato la sua squadra: e non erano pochi quelli che anche ieri, nell’auditorium di Viale dell’Astronomia, si attendevano una “prolusione” meno profilata, più cauta nell’affrontare almeno due crinali.

Il primo era quello interno. La contrapposizione fra due lombardi entrambi campioni del made in Italy – il “patron” di Mapei e quello di Brembo, due multinazionali tascabili di punta – è apparsa per molti versi poco leggibile. Su un tema delicatissimo come quello della riforma del mercato del lavoro, ad esempio, Squinzi (considerato più vicino al centrodestra come l’uscente Emma Marcegaglia) si mostrava più pragmatico di Bombassei, collocato almeno mediaticamente più al centrosinistra come il suo grande sponsor Luca di Montezemolo. Più evidente la dicotomia fra la piccola e media industria – tutta schierata con Squinzi, compresa quella del Sud – e la grande impresa privata (a cominciare dalla pur disastrata Fiat) e pubblica – a cominciare da Finmeccanica (con l’Eni in posizione di faticosa equidistanza).

Ai “battuti” Squinzi non ha rinunciato a lanciare la sfida fin dal primo giorno: siete anche voi industriali “veri”, orientati esclusivamente allo sviluppo della aziende e della più ampia Azienda-Italia? Allora sicuramente non avremo problemi a lavorare assieme nella “Confindustria di tutti”. La quale – ed era il “secondo fronte” dell’inauguration-day confindustriale – ha un solo compito: tutelare la competitività della imprese “vere”, confrontandosi con la politica, senza fare politica.

Qui la relazione di Squinzi non ha certo fatto sconti al suo coetaneo e concittadino Mario Monti. Con questi livelli di imposizione fiscale e con questa inefficienza della macchina pubblica, ha lasciato chiaramente intendere il neo-leader degli industriali – l’Azienda Italia non va da nessuna parte, e rischia di non riaccendere il motore. E su questo piano il taglio dei costi energetici è infinitamente più importante del braccio di ferro sull’articolo 18. Qui l’antiretorica e la compostezza dell’esordio ha certamente fatto sì che Squinzi fornisse un contributo non da poco a un clima politico-istituzionale nel quale la confusione dei ruolo, l’abuso delle prerogative e la sottrazione alle responsabilità sta diventando la regola.

Se le imprese riescono a essere accettabilmente “vere” spingeranno a fare altrettanto i tecnici al governo – che non devono essere distratti dalle sirene della campagna elettorale già iniziata; ma anche i politici, che non devono interferire nelle scelte d’emergenza del governo Monti e devono preparare un ritorno alla normalità democratica con programmi credibili. Squinzi – a differenza di Sergio Marchionne – non se n’è andato a Detroit: non gli è passata la voglia di provare a ricostruire un’Italia “vera”.