Giorgio Vittadini ha svolto venerdì scorso sul Sussidiario una riflessione di cultura politica applicata all’attualità, non diversa da quella proposta per il passato all’ultimo Meeting di Rimini dalla mostra “150 anni di sussidiarietà”. Il “discorso politico” di metà Ottocento – l’Italia unita – si tradusse in un progetto ideologico e illuminista, promosso da élites e condotto con logiche diplomatico-militari, in via subalterna al gioco geopolitico delle grandi potenze europee. Ma quell’Italia “stato-cuscinetto” nell’Europa mediterranea non avrebbe probabilmente neppure superato il giro di boa del Novecento (tanto meno due successive guerre mondiali) senza l’azione decisiva di una “società nazionale” molto più ampia e solida della ristretta “casta” risorgimentale. L’Italia unita – il suo Stato, la sua economia, la sua società – è stata poi faticosamente costruita da un “popolo” plasmato anche dalla civiltà cristiana: un momento reale, alla prova storica, di progresso/integrazione, non di conservazione/divisione, come ha riconosciuto apertamente il presidente Giorgio Napolitano nella sua orazione civile al Meeting.
Non è certo una coincidenza se, centocinquant’anni dopo, il sistema bancario italiano non ha ceduto di schianto alla crisi grazie alle sue radici nella cooperazione e nella tradizione delle Casse di risparmio. Né è in fondo casuale che gli industriali italiani si siano scelti come nuovo leader un imprenditore che in quarant’anni ha creato dal nulla una multinazionale competitiva a livello globale, ma non ha mai voluto quotarsi in Borsa, né ritiene oggi che licenziare i lavoratori sia la priorità in un’economia in crisi globale. Il “made in Italy” non è solo una “griffe”, ed è fortunatamente molto di più di una “pole position” della Ferrari.
A pilotare il Paese continuano intanto a salire periodicamente governi detti “di unità nazionale”, ma in quanto tali governi inesorabilmente “antipolitici”; figli, 151 anni dopo, dell’idea tenace che la società italiana non abbia mai il diritto-dovere di fare i conti da sé con il proprio passato e decidere il proprio futuro. Forse ancora in molti preferiscono dimenticare che la più grave crisi storica dell’Italia unita – l’avvento del fascismo – si origina contro gli orientamenti profondi di una società nazionale più democratica delle sue classi dirigenti, un’Italia rappresentata in Parlamento dai cattolici come dai socialisti. È un’ennesima operazione di “tecnica politica” a trasformare un agitatore antipolitico come Benito Mussolini in un sorta di premier “tecnico”, incaricato di “stabilizzare” il Paese.
È allora che l’establishment italiano (ma accade anche in Germania) si mostra certamente incapace – per dirla con Vittadini – di una “svolta liberale”: imbocca una scorciatoia senza capire che comporta un’inversione a U, poi un vicolo cieco e infine il precipizio. E il fascismo finisce per tirar fuori molto del peggio della società italiana, rifiutandone il meglio. Le stesse radici di un’economia chiusa al mercato – costantemente deprecata poi dagli ultraliberisti all’italiana raccolti attorno a Mediobanca – stanno assai più nell’Iri degli anni ‘30 che nella Cgil del 1969. E la cultura monopolista dello Stato fiscale sopravvive poi nella “Repubblica nata dalla Resistenza”: un altro format cui sembra attagliarsi l’ultima provocazione di Vittadini.
L’“ultrapolitica”, l’assolutismo “salvifico” della politica è solo un’altra forma di antipolitica e forse non la più ingenua o innocua. Certo, riconosce l’articolo, la Seconda Repubblica – il “ventennio berlusconiano” – ha fallito come i tentativi precedenti sull’eterna frontiera italiana: quella sulla quale la società sembra avere i numeri per vincere (come nel boom del dopoguerra), quella sulla quale poi le istituzioni e il “government” perdono (come negli anni ‘70 e ’80), trascinando con sé la società, le imprese, le persone. E questo impone puntualmente alla stessa società di ripartire da se stessa: senza mai un manuale di istruzioni affidabile, salvo “una certa idea di Italia” che è per esempio quella in cui Napolitano si è specchiato a Rimini molto più di quanto gli sia forse stato possibile a Roma, come “Capo dello Stato”.
(Vittadini sottolinea correttamente che l’ennesimo “fallimento di rivoluzione liberale” si rivela evidente quando il centrodestra ha una maggioranza parlamentare larghissima, dopo il voto del 2008. Anche tra qualche anno non sarà però facile giudicare quanto il berlusconismo abbia dilapidato un capitale di “liberalismo in potenza” – insito ad esempio nel suo Dna di imprenditore – e quanto sia stato contrastato da forze che – un secolo e mezzo dopo – reagiscono a tutti i tentativi di consolidare in Italia quell’“economia sociale di mercato” che oggi, forse più correttamente, viene chiamata “sussidiarietà”).