Meno di un mese fa – lo ricordava anche Dario Di Vico su Il Corriere della Sera – le banche italiane avevano assunto un impegno quasi formale con il governo “dei banchieri” per sbloccare la partita bollente dei crediti delle imprese verso la Pubblica amministrazione. Dall’esecutivo Abi – dopo un confronto diretto con il ministro dello Sviluppo, Corrado Passera – era uscito uno schema abbastanza lineare: il sistema avrebbe messo a disposizione un plafond di 30-40 miliardi per scontare (principalmente attraverso lo strumento del factoring) fino a 60-70 miliardi di debiti pubblici verso fornitori privati di beni e servizi.

La sola condizione posta dagli intermediari era una rigorosa certificazione pubblica dei crediti vantati: a protezione di falsi, abusi e illeciti che – purtroppo – sul crinale dei rapporti finanziari fra pubblico e privato rappresentano in Italia una fenomeno strutturale e non marginale. Il dossier sembrava comunque pronto per la veloce firma di un nuovo “avviso comune”, sulla scia di quelli che negli anni scorsi hanno portato alle moratorie dei mutui e dei finanziamenti alle imprese minori. Invece tutto sembra tornato nei cassetti. Perché?

Forse si è scoperto che la preziosa liquidità accumulata nei bilanci delle banche grazie alle maxi-aste della Bce continua in realtà a essere necessaria come “riserva strategica” per la finanza pubblica: lo spread italiano resta alto e la stretta fiscale (con nuove incognite politiche sulla sua reale consistenza) non produrrà effetti che dopo l’estate. E poi le stesse banche italiane, almeno fino al 30 giugno, sono sorvegliate speciali da Banca d’Italia ed Eba per il rafforzamento dei coefficienti patrimoniali.

Al credit crunch “pilotato” non sembra esserci alternativa: almeno per ora e con buona pace dell’esigenza di immettere un po’ di liquidità-stimolo del sistema economico. Un “governo di banchieri”, forse, avrebbe dovuto pensarci prima, o almeno non condurre per le lunghe un gioco pericoloso sul soccorso a imprese e imprenditori schiacciati fra debiti Equitalia e crediti Pa.

Si legge che il premier Mario Monti starebbe per chiedere una finestra – almeno per i crediti Iva – al cancelliere Merkel (supercommissario unico dell’austerity europea). Ma nel frattempo il capo del governo tecnico ha disertato il summit Ecofin che, nei giorni scorsi, doveva limare le linee applicative di Basilea 3 nell’Unione europea a partire dal gennaio 2013. Dopo una lunghissima trattativa, i 27 ministri dell’Economia non hanno trovato un accordo, riaggiornandosi al 15 maggio.

La partita è stata squisitamente politica, con la Gran Bretagna impegnata apparentemente a difendere una più rigida ri-regulation sui presidi anti-rischio nei bilanci delle 8.300 banche europee; in realtà desiderosa di rendere più flessibile la cornice di standard del mercato unico (la Gran Bretagna è di fatto l’unico membro dell’Ue a non aver sottoscritto il nuovo progetto di “fiscal compact” patrocinato dalla Germania per difendere l’euro e la stabilità economica in Europa). Ed è tutta politica la perplessità di fronte al fatto che l’Italia era rappresentata dal viceministro Vittorio Grilli, fino a poco tempo fa partecipante ai vertici Ecofin ed Eurogruppo come “sherpa”, da direttore generale del Tesoro.

Grilli non ha fatto altro che appoggiarsi istituzionalmente alla posizione della Commissione Ue nel chiedere “regole ragionevoli”, ma l’Italia gioca in questo momento una partita sostanziale e l’europeismo non può essere solo di principio di fronte a sfidanti combattivi come il cancelliere dello scacchiere Osborne, portavoce della City. Il quale persegue l’obiettivo ultimo di un “opting out”: della libertà di muovere regole e parametri con larga autonomia nazionale. E ciò è quanto anche una larga parte dell’Azienda-Italia chiede soprattutto per l’applicazione di Basilea 2: cioè dei meccanismi semiautomatici di concessione del credito alle Pmi, ossatura del sistema.

Sul fronte europeo il sistema bancario italiano ha perso più di una battaglia: l’ultima quando Monti era già a palazzo Chigi e in via XX Settembre ad interim. Le indicazioni punitive dell’Eba – frutto di valutazioni discutibili sul piano di un’effettiva uniformità tra i sistemi bancari di diversi paesi – hanno rappresentato solo l’ultimo incidente: apparentemente paradossale se si pensa che sono italiani sia il neo-presidente della Bce, Mario Draghi, sia il neo-presidente dell’Eba, Andrea Enria.

Ecco: da un governo “di banchieri” che si è preoccupato delle incompatibilità in consiglio fra qualche decina di “vip” ai vertici degli istituti e che voleva cancellare demagogicamente per decreto tutte le commissioni attive alle banche, ci si aspetterebbe che poi fosse presente a pieno titolo nelle sedi europee dove si sta giocando la partita decisiva per l’uscita da una crisi bancaria di cui l’Azienda Italia ha subito troppe conseguenze immotivate.