Il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, si sta rivelando sempre più una risorsa del sistema-Paese. Il suo “low profile” comunicativo (che solo apparentemente contrasta con il suo “high profile” consolidato come capo-economista dell’Ocse) è stato dapprincipio interpretato – anche da noi giornalisti – come la cifra di un “governatore per caso”; nominato dopo lo scontro finale, all’ultimo sangue, fra Mario Draghi (che voleva Fabrizio Saccomanni come suo erede) e Giulio Tremonti, che sponsorizzava Vittorio Grilli, suo direttore generale (e da ieri anche suo successore all’Economia). Anche all’indomani del suo primo 31 maggio, non è mancato chi ha contrapposto le undici pagine stringate delle Considerazioni finali alle grandi “orazioni civili” di un Guido Carli o di un Paolo Baffi.
Visco, insomma, è apparso – o lo si è voluto far apparire – come prototipo del governatore “2.0”: un preparato e dignitoso proconsole mediterraneo di Francoforte, dove siede il “banchiere centrale dei banchieri centrali” (pro-tempore super-Mario Draghi: “A non-italian”, secondo il Financial Times). A legger bene, le ultime Considerazioni finali erano invece tutt’altro che “periferiche” e perfino meno “draghiane” di quanto ci si sarebbe potuti attendere. La difesa della solidità del sistema bancario italiano (e della sua capacità di finanziare le imprese) e le critiche tecniche alle pagelle dell’Eba sui coefficienti patrimoniali non erano affatto scontate: al suo debutto (e per lungo tempo) Draghi ha sempre sferzato il bancocentrismo italiano additando, ad esempio, quella finanza di mercato che di lì a poco ha invece semidistrutto monete e credito. Altra cosa è stata la critica ai banchieri italiani: alla pletora di consigli d’amministrazione, a compensi che si attardano ancora sulla scia pre-crisi della City o di Wall Street. Altra cosa ancora è stato il richiamo alle banche a essere più efficienti, a tagliare i costi dei servizi, a essere davvero più attente al risparmio delle famiglie.
Ieri all’assemblea Abi (ancora un debutto) Visco a riga quattro del suo intervento ha detto: «La differenza tra i rendimenti dei titoli pubblici italiani e tedeschi è di gran lunga superiore a quanto sarebbe giustificato dai fondamentali della nostra economia. Riflette generali timori di rottura dell’unione monetaria: un’ipotesi remota, che sta però condizionando le scelte degli investitori internazional». Chi scrive è più portato ad apprezzare la schiettezza “qui e ora” piuttosto che recriminare sul silenzio di Draghi un anno fa: quando invece era opinione corrente – in Italia prima che in Europa – che il nostro debito sovrano pagasse almeno 150 punti di spread al solo ”effetto Berlusconi”. Oggi invece (Visco è stato più puntuale domenica scorsa su Il Corriere della Sera) la Banca d’Italia è convinta che lo spread “corretto” non superi i 200 punti: i Btp pagano dunque almeno altrettanto alla “speculazione internazionale”. Visco la chiama per nome («investitori istituzionali») e dice abbastanza apertamente che si sbagliano.
Forse è il massimo che un banchiere centrale “di mercato” possa permettersi nel 2012 contro l’oligopolio finanziario globale (“il club del Libor”), ma il governatore italiano lo ha detto. Draghi – nella sua rincorsa alla Bce facendo sponda sul Financial Stability Board – non è mai stato così esplicito nel descrivere il malfunzionamento dei mercati: per lui la crisi deflagrata nel 2008 rimane un grosso «incidente di percorso» e anzi resta discutibile porla alla radice della successiva instabilità dell’eurozona. Per Draghi le banche italiane dovevano ricapitalizzare in Borsa (diktat cui il sistema ha obbedito): non era immaginabile il maxi-salvataggio europeo concesso alle banche spagnole (proprio ieri l’Eba ha pubblicato il suo ridicolo report sei mesi dopo aver imposto condizioni draconiane all’Italia, ignorando invece il default già maturato a Madrid).
Val comunque la pena di leggere letteralmente il punto di vista di Visco: «Anche dopo il riassetto del Montepaschi l’entità complessiva degli interventi dello Stato a sostegno delle banche italiane resta bassa nel confronto internazionale; riflette anche la limitata diffusione di attività di negoziazione di prodotti finanziari opachi e rischiosi. Tra il 2008 e il 2010 sono stati erogati aiuti di Stato alle banche europee sottoforma di ricapitalizzazioni e copertura di perdite per 409 miliardi di euro, pari al 3,3% del Pil; sono state utilizzate garanzie sulle emissioni di passività per 1.111 miliardi, il 9,1% del Pil. In Italia, le operazioni sul capitale sono state pari a 4,1 miliardi e allo 0,3% del Pil; non sono state richieste garanzie da parte delle banche. Considerando gli aiuti di Stato autorizzati, per cui sono disponibili dati fino all’autunno del 2011, gli interventi pubblici salgono in Europa al 37% del Pil; il dato non tiene conto delle più recenti misure di ricapitalizzazione in favore di alcuni sistemi bancari europei e di garanzia sulle passività bancarie. Per l’Italia gli interventi rimangono contenuti: in particolare, l’ulteriore operazione sul capitale della Banca Monte dei Paschi di Siena sarà dell’ordine dello 0,1% del Pil, mentre le garanzie usate per obbligazioni portate al rifinanziamento presso l’Eurosistema ammontano oggi al 5,5% del Pil».
La Banca d’Italia non voterà l’anti-banchismo ideologico e apocalittico di Beppe Grillo (e questo può essere perfino scontato), ma respinge pure lo “sfascismo” programmato delle varie Standard & Poor’s su tutto quello che è a sud delle Alpi: e questo fino a qualche tempo fa non accadeva. All’Italia del 2012 – nella “sospensione di democrazia” globale – basta anche avere come banchiere centrale un tecnocrate che non farà politica, ma ha ben chiaro cos’e “l’interesse nazionale”.
P.S.: Ieri il presidente (riconfermato) dell’Abi Giuseppe Mussari è appositamente sceso dal palco dell’assemblea per salutare con un abbraccio il presidente (neo-eletto) di Confindustria, Giorgio Squinzi. Anche Mussari, nel suo intervento alla presenza del premier Mario Monti, non ha avuto timore di affermare: «Cooperare vuol dire fare ogni sforzo per promuovere le riforme in essere, contribuire a migliorare all’estero l’idea dell’Italia e della sua stabilità. Ciò non esclude ovviamente le osservazioni critiche, anche le più profonde. Ma chi decide di cooperare lo fa contribuendo a costruire, non solo condividere, un obiettivo comune». Come si è segnalato su Il Sussidiario negli ultimi giorni, sbaglia chi pensa e dice (magari rivolgendosi fin troppo platealmente agli interessati) che il problema “sono” i due leader associativi o che entrambi “hanno problemi”: i problemi sono altri (la politica economica che non va oltre l’emergenza anti-spread) o di altri (governanti in carica oggi o domani).