Le agenzie di rating tornano nel mirino di governi, media e opinioni pubbliche negli stessi giorni in cui la “banda del Libor” subisce un colpo durissimo: certamente per alcune carriere e per la reputazione di certe piazze. Due oligopoli, quello dei rating e quello dei tassi-benchmark del mercato monetario. Il primo fatto di sole tre sorelle, tutte americane; il secondo un po’ più esteso nella globalità, ma sempre incardinato sull’asse Wall Street-City.

Ma del resto cos’era la finanza derivata alla vigilia del crac di Lehman Brothers? Le emissioni di collaterali di crediti immobiliari (quelli che hanno caricato mercati e banche di rischi esplosivi) era sostanzialmente un duopolio articolato: da un lato le due agenzie para-pubbliche (Fannie Mae e Freddie Mac), dall’altro molte major newyorchesi “dead walking” (Bear Sterns e Lehman) o poi salvate dal piano Paulson (Goldman Sachs, JP Morgan, Bank ok America). La cosiddetta finanza globale, in ogni caso, è ancora un mondo in cui sopravvive egregiamente il fixing dell’oro a Londra, tutt’ora elaborato quotidianamente dal “Club dei Cinque”: non più un oligopolio “old” di broker in bombetta come Samuel Montagu, ma un oligopolio “new” di cinque colossi bancari (ancora Barclays, Deutsche e SocGen, oltre a Hsbc e ScotiaBank). Pur sempre “Square Mile” come nel 1919: una rete ristretta di uffici e club nel cuore della City.

L’oligopolio finanziario “troppo grande per fallire” – avversario “duro a morire” per l’America di Obama come per l’Europa della Merkel – rimane dunque al centro del confronto intellettuale e politico più serio (ne è però fuori il ministro Fabrizio Barca, fino a ieri senior economist di Bankitalia e Ocse e dirigente generale del Tesoro: i giudizi di Moody’s, dall’oggi al domani, raffazzonano «chiacchiere da salotto»? Il tecnocrate neopopulista-snob si disilluda in fretta: come candidato-premier nel 2013 – Barca è stato preconizzato da alcuni come “nuovo Prodi” – Beppe Grillo è già avanti di dieci punti).

Sulla distruzione dell’oligopolio duellano comunque da tempo – in modo particolarmente leggibile riguardo le agenzie di rating – la critica antimercatista (“di sinistra”) e quella ipermercatista (“di destra”) La prima – molto europea – ripete che il collasso dei mercati è stato causato dai suoi eccessi liberisti e che la ricostruzione “antisismica” esige più regole, freni più stretti, nuovi/vecchi muri. Opposto, ma non meno severo, l’approccio dei critici “mercatisti” (come, ad esempio, Luigi Zingales, italiano di Chicago): la crisi è stata originata da “troppo poco mercato” e la cura del pur grave “incidente di crescita” non può che essere l’immissione delle dosi mancanti di tutto ciò che avvicina all’archetipo della “concorrenza perfetta”.

Esemplare, pochi giorni fa, il commissario Ue al mercato interno, Michel Barnier: «Lei ha ragione – dice il commissario francese all’intervistatore – nel mercato dei rating c’è troppo poca concorrenza, favoriremo la nascita di nuove iniziative private. Ma la questione chiave è ridurre l’importanza delle valutazioni nei parametri usati dalla regolamentazione dell’attività creditizia». Ineccepibile: lo sanno per prime le banche italiane quale cocktail micidiale possa derivare dall’immissione di rating “privati” (generati dal mercato) in momenti di regolamentazione “pubblica” o “semi-pubblica” (principi contabili Ias, Basilea 3 e stress-test Eba, ecc.). In ogni caso la “vision” (comprensibile e in parte rilevante condivisibile) è “poteri pubblici contro poteri di mercato”. È la stessa che periodicamente mette sui tavoli del G-20 la “Tobin tax” (la tassa sulle transazioni in funzione di freno e “punizione” alla speculazione) o varie forme di messa al bando degli hedge fund.

Ma proprio nel caso dei rating è più visibile quanto i tentativi dei poteri pubblici di “ri-contenere”, almeno, i mercati, abbiano il sottile e proverbiale irrealismo di chi vorrebbe ricacciare il genio nella lampada o il dentifricio nel tubetto. Fino a un quarto di secolo fa, in un sistema finanziario spezzettato in aree valutarie nazionali fatte funzionare essenzialmente da Stati e banche con prodotti elementari (depositi e titoli di Stato) la vigilanza delle banche centrali sulla solidità degli intermediari era più che adeguata: svolgeva di fatto la funzione di assegnare “merito di credito”. È nei primi anni ‘80 che tutto cambia: i mercati finanziari diventano adulti, si aprono, si integrano, assumono dimensioni e complessità prima sconosciute.

I “supervisor” nazionali entrano in crisi e (come purtroppo si è verificato) perdono via via la capacità di controllare i rischi assunti degli stessi intermediari sottoposti alla loro vigilanza (lo stesso progetto Unione bancaria, fresco di firma, certifica l’obsolescenza delle vigilanze pubbliche nazionali, con buona pace dei nostalgici anti-mercatisti) Certamente, comunque, non era e non può essere compito dei “vigilantes” pubblici supportare le scelte degli investitori: dei piccoli risparmiatori privati o i grandi gestori istituzionali. Chi può dire a un fondo pensioni australiano quanto una banca italiana, uno Stato sudamericano, una multinazionale indiana è affidabile?

Alla fine riesce a dirlo, ha interesse a dirlo, solo il mercato medesimo: generando “arbitri” professionali e privati pagati dal mercato stesso, senza necessità di authority pagate dai contribuenti. Strutture che canalizzano il classico “passaparola”, che danno contenuto tecnico di giudizio e comunicazione riconosciuta al “nome su piazza” di una società, di una banca, di uno Stato. Standard & Poor’s e Moody’s nascono così nella Wall Street “d’antan”: un po’ gestori di dati e indici di Borsa, un po’ editori di newsletter, un po’ analisti, un po’ consulenti. Gli investitori sono disposti a comprare i loro servizi fino a quando risultano attendibili e aggiornati; gli emittenti di titoli sono disposti a pagare per fregiarsi del rating S&P’s in quanto giudicato attendibile, accettabilmente professionale e indipendente: sulla carta il modello “di mercato” sta in piedi. E l’impresa “profit” sembra vincere su tutta la linea: sollecitata dal mercato, produce servizi più efficienti e di qualità rispetto a un’authority burocratica, che non risponde al mercato ma allo Stato.

I conflitti d’interesse, i rischi di “cattura” da parte delle autorità pubbliche o del mercato? Il manuale del libero mercato dice che possiamo stare tranquilli: gli azionisti privati delle agenzie di rating (benché possano essere essi stessi attori del mercato) sanno che il valore del loro investimento (profitti e capitalizzazione di Borsa) è esclusivamente legato alla costante capacità “imprenditoriale” delle agenzie di stare sul loro mercato: di non sbagliare un colpo, di non essere sospettabili.

All’inizio del secolo ventunesimo la realtà – come quasi sempre – ha smentito sia teoria che la fantasia. Cinque giorni prima di un default epocale, nel settembre 2008, i rating di Lehman sono alti e stabili. Tre anni dopo è lo stesso presidente degli Stati Uniti a stracciarsi le vesti perché S&P’s ha tolto la tripla A al debito sovrano di Washington, mettendo in dubbio le capacità di governo del primo capo di Stato del pianeta (e questo, a rigore, potrebbe perfino essere un grosso punto di merito per l’oligopolio del rating: ma non per un presidente alla vigilia delle elezioni di riconferma e dopo aver fallito tutti i tentativi di rifare un po’ d’ordine a Wall Street). Già nell’estate 2011, comunque, una procura periferica del meridione italiano indaga sui metodi delle “tre sorelle” con criteri che – almeno per ora – né Sec, né Fbi hanno utilizzato. E i magistrati di Trani – attraverso intercettazioni e altre azioni investigative – scoprono che nel “mercato dei rating” c’è – come minimo – molta più approssimazione e molta meno trasparenza di quanto i manuali prescrivono e la “vulgata” dei mercati hanno fin qui raccontato. Sono i vizi tradizionali dell’oligopolio: che fare?

Non per coincidenza, il primo tentativo di portare nuova concorrenza a S&P’s, Moody’s e Fitch è venuto dalla Cina. Pechino non sarà la capitale di un sistema economico “di mercato”, ma – certamente più dell’Ue – ha chiare oggi tutte le dimensioni della “competizione globale” per averle sperimentate nel farsi largo sui mercati del pianeta. Dagong, l’agenzia di rating cinese, è un caso esemplare: è stata fondata nel ‘94, per alcuni anni ha compito una sorta di lungo “stage” presso Moody’s (naturalmente per “copiare l’arte”). Oggi la sua proprietà non è nota (ma è quasi certo un aggancio sostanziale con le autorità monetarie cinesi). I suoi rating sono ultra-severi e vengono citati dei media euroamericani ancora in chiave folkloristica: ma non più del tutto, dopo che Pechino ha investito porzioni crescenti delle sue riserve in debiti sovrani Usa-Ue.

In ogni caso, la Cina non ha ancora un’economia finanziaria di mercato compiuta , ma ha già la “sua” agenzia di rating (per ora semipubblica). L’Europa (o meglio: l’eurozona) rimane uno dei principali terreni di gioco della finanza globale, ma non ha sua agenzia di rating. Crearne una (o meglio ancora: due) da zero non è impossibile: la Bce è nata dopo pochi anni di incubazione nell’Ime e ha dato buona prova di governo monetario sotto stress. Ma stavolta sarebbe il mercato alla prova: UniCredit, SocGen, Santander, Deutsche Bank saprebbero impiantare un’agenzia competitiva? (Per una volta lasciamo stare la City: sono fuori dall’euro, remano contro sul “fiscal compact”, su Basilea 3 e su molto altro: se vogliono essere offshore, ci provino per davvero).

Chissà, il mercato stesso – da cui evidentemente indietro non si torna – apprezzerebbe altrettanto che le tre sorelle di Wall Street aprissero il capitale a investitori europei. Oppure che la più giovane (Fitch) riscoprisse le sue radici europee (e un pezzetto erano perfino italiane: Ibca). Vi fidereste di una nuova superagenzia “Moody’s-Dagong”? Chi scrive queste brevi note non sarebbe così diffidente: ovviamente quando le informazioni fossero interamente e indifferentemente accessibili attraverso Google e Baidu.