Ventiquattr’ore dopo l’esito del super-vertice di Bruxelles – che ha dato disco verde alle ricapitalizzazioni bancarie via “fondi salva-Stati”, è scaduto il termine ferreo posto lo scorso dicembre dall’Eba per alzare al 9% il “core tier 1”, il principale coefficiente patrimoniale che valuta la solidità delle banche. L’esito di quello “stress test” era stato titolo di prima pagina in tutt’Europa: erano interessate una novantina di banche, tutte le maggiori, alcune con pagelle pesanti e “compiti a casa” impegnativi. Il conto totale presentato dalla giovane autorità bancaria comunitaria, presieduta dall’Italiano Andrea Enria, ammontava a 115 miliardi di richieste di ricapitalizzazione.
A parte il caso-Grecia (30 miliardi minimi di fabbisogno per il sistema ellenico, travolto dal “default tecnico” del debito sovrano interno), la Spagna con 26 miliardi e l’Italia con 15 capeggiavano la “lista nera”. Fra i gruppi iberici, spiccava il gigante Santander (15 miliardi), mentre poli minori come Bankia presentavano situazioni apparentemente meno problematiche (un paio di miliardi). In Italia veniva invece chiesto a UniCredit uno sforzo da 7,9 miliardi (più del doppio di quanto raccomandato a Deutsche Bank), seguito da Montepaschi (poco meno di quattro miliardi), mentre azioni immediate venivano perentoriamente indicate anche per Ubi e Banco Popolare. A fine 2011 i mercati stavano sviluppando il massimo della loro pressione speculativa sull’Italia (la Spagna, che aveva indetto elezioni politiche anticipate, veniva considerata più stabile) e nessun tipo di “scudo” era in agenda – neppure in via teorica – per il sistema bancario: il braccio di ferro già in corso dall’estate fra la Germania “rigorista” e il resto d’Europa verteva ancora esclusivamente sui debiti pubblici e sull’attivazione dei meccanismi “anti-spread”.
Come sono andate dopo le cose è ancora quasi cronaca, ma forse val la pena di rammentarlo in breve: abbiamo già visto con quale rapidità d’impatto mediatico il “revisionismo storico-finanziario” ha agito nel portare al 2009-2010 (crisi greca e instabilità dell’euro) il tempo-zero e le radici della crisi sistemica originata nel 2007-2008 dal crac della finanza derivata a Wall Street (primi revisionisti: il Presidente degli Stati Uniti Barack Obama e il gestore-guru George Soros). UniCredit ha annunciato quasi immediatamente un aumento di capitale (il secondo dopo il crac Lehman) da 7,5 miliardi. L’operazione è stata condotta in porto già in gennaio: in Borsa, raccogliendo mezzi freschi.
Il giudizio Eba e l’effetto-ricapitalizzzaione hanno ovviamente spinto ai suoi minimi storici il valore dell’azione in Borsa, hanno obbligato gli azionisti stabili (come le Fondazioni bancarie) a sforzi supplementari per mantenere la propria posizione, hanno comunque lasciato spazio a interventi-raid da parte di grandi investitori globali: come il fondo Pamplona, che ha recentemente annunciato di possedere il 5% di Piazza Cordusio (che va ad aggiungersi al 5% rilevato a crisi iniziata da Aabar, fondo sovrano degli Emirati – e al 7% acquisito da entità sovrane libiche, quota in via di “scongelamento” dopo la fine del regime Gheddafi). Pamplona fa capo essenzialmente a capitali russi, ma ha goduto dell’appoggio “legittimativo” di Deutsche Bank nello strutturare l’operazione UniCredit sui mercati.
La prima banca tedesca, dal canto suo, non ha dovuto effettuare ricapitalizzazioni per coprire i 3,2 miliardi di “gap” certificato dall’Eba: è bastata qualche cessione. Ma, soprattutto, è stata decisiva la “clemenza contabile” dell’Eba che ha giudicato decine di miliardi di titoli derivati in portafoglio a Db molto meno rischiosi dei Btp che le banche italiane avevano in bilancio a fine 2011. La reazione dell’Abi è stata durissima e lo stesso neo-governatore di Bankitalia, Ignazio Visco, ha tacitamente sottoscritto la polemica italiana verso l’“impar condicio” tecnica decisa dall’Eba che per sei mesi ha fatto passare l’intero sistema bancario italiana come “a rischio”: non solo deprimendone i valori in Borsa, ma tenendo costantemente alta la tensione nel già forte clima di sfiducia economico-finanziaria. Non è un caso che la vigilanza della Banca d’Italia abbia infine silenziosamente accordato una generosa valutazione ai nuovi sistemi di definizione dei rischi creditizi da parte di Ubi e Banco Popolare: due “promozioni” oltre la soglia del 9% immediatamente “bocciate” da Moody’s.
Chi non ce l’ha fatta è stato invece il Montepaschi; tanto che d’ora in poi anche questa rubrica non potrà più sottolineare che “nessuna banca italiana è mai fallita”, anche se il salvataggio di Rocca Salimbeni fa aumentare solo di poco il conto dei pur limitati aiuti pubblici accordati dall’Italia alle sue banche. Però, dell’ultima concitata settimana, val la pena comunque notare alcuni dati di cronaca. Primo fra tutti: la manovra-Montepaschi è stata costruita via Tremonti-bond e decisa indipendentemente dalla svolta sulle ricapitalizzazaioni bancarie maturata a Bruxelles essenzialmente per l’epilogo disastroso della crisi bancaria spagnola. Anzi: sarà interessante vedere se ora anche Mps si riorienterà verso gli aiuti europei, che saranno attivati dopo la nascita dell’Unione bancaria e della nuova vigilanza creditizia affidata alla Bce. Ma continuiamo con ordine.
Il Montepaschi certifica un sostanziale dissesto singolo quando l’intero sistema spagnolo getta la spugna dopo mesi o anni di “omertà”, chiedendo (a stime ancora provvisorie) almeno una cinquantina di miliardi di aiuti. E nel collasso generale spicca il crac di Bankia, un contenitore di aziende creditizie iberiche messe in ginocchio dalla crisi immobiliare, cui comunque la supervisione Eba, sei mesi fa, non aveva riscontrato profili allarmanti. Non sorprende che Mario Draghi personalmente abbia annunciato che sarà la “nuova Bce” a vigilare sull’Unione bancaria: ma nella prospettiva è implicito il fallimento e il superamento dell’esperienza-Eba, che tuttavia ha potuto tenere in scacco il sistema italiano negli ultimi sei, terribili mesi.
Se la Spagna ha quindi potuto godere di un doppio trattamento di favore (nei giudizi Eba di fine 2011 con scadenza 30 giugno 2012, nelle soluzioni strutturali Ue adottate il 29 giugno 2012), proprio dalla Spagna sono giunti i problemi che sono infine risultati letali per il Montepaschi. La rivendita dell’AntonVeneta al sistema-Italia – appena due anni dopo la sanguinosa “estate delle Opa” nel 2005 – avvenne da parte del Santander, poche settimane dopo il successo dell’ultima super-Opa bancaria europea pre-crisi: quella su Abn Amro da parte del gruppo spagnolo, di Royal Bank of Scotland (poi fallita e nazionalizzata) e di Fortis (fallita e smembrata). Si trattò di un vero e proprio salvataggio di Abn, svenata dall’Opa su AntonVeneta, supportata dalla finanza anglosassone per schiacciare il Governatore italiano Antonio Fazio e il tentativo di resistenza da parte della Bpi di Gianpiero Fiorani.
Poiché in quel 2005 anche la Bnl era stata negata a Unipol e consegnata infine a Bnp, la stessa Banca d’Italia – guidata da Draghi – due anni dopo guardò con molto favore l’operazione Mps-Antonveneta: anche se il prezzo finale pagato (10 miliardi) creava uno squilibrio oggettivo nei conti del gruppo senese. Ma allora la logica dell’“asta di mercato” parve praticabile all’ex top manager Goldman Sachs divenuto banchiere centrale in Italia: e poi la crisi bancaria globale sembrava ancora controllabile. Oggi, in ogni caso, dell’acquisizione Antonveneta si occupa la Procura di Siena, esattamente come Fazio è già stato condannato in appello e i due banchieri-pivot in Italia (Alessandro Profumo, oggi presidente dello stesso Montepaschi dopo aver guidato UniCredit) e Corrado Passera (oggi ministro dello Sviluppo dopo essere stato a capo di Intesa Sanpaolo) sono entrambi coinvolti in procedimenti o indagini su presunti reati fiscali.
Invece, in Gran Bretagna se la sono cavate finora, con multe salate Barclays (autrice del primo tentativo di Opa su Abn) e Rbs: hanno manipolato il Libor, uno dei tassi-base sui mercati. Nel frattempo, ha lasciato con 21,5 milioni di dollari di bonus Ina Dew, la manager della JPMorgan Chase di Londra cui sono state attribuite le responsabilità dell’ennesimo buco su derivati (si dice fino a 10 miliardi di dollari). Il suo capo a Wall Street, Jamie Dimon, ha subito finora solo un’audizione davanti a una commissione del Congresso e siede tuttora nel board della Fed di New York, vigilando su se stesso e sugli altri mezzi capi-bastone dell’oligopolio finanziario.
Il nuovo “Super-Draghi” avrà molto lavoro da fare per trasformare l’Unione bancaria in un luogo di decente civiltà finanziaria. Se Londra – come già qualcuno ipotizza – ne resterà fuori potrebbe essere un bene. L’Italia, nel frattempo, sarà pure ancora in debito con l’Unione fiscale, ma è sicuramente in credito con quella bancaria.