Brevi giorni a Sankt Moritz consentiranno forse a Mario Monti di stringere – virtualmente sul posto – un accordo con la Svizzera che fotocopi quello già raggiunto con Berna da Germania e Gran Bretagna. Forse recuperare gettito fiscale dai capitali esportati decenni fa o negli ultimi giorni non rappresenterà la bacchetta magica per i conti pubblici italiani: né per sostenere il bilancio corrente, né per frenare la fuga di ricchezza finanziaria nazionale. Ma sarà comunque un punto a favore del governo e non gioverà attardarsi sul confronto costi/benefici con la terapia tremontiana degli “scudi” e dei condoni.
Alla vigilia di mesi che si annunciano durissimi per l’intero sistema-Italia, tutto torna utile. Ma in attesa che il premier cominci a svelare all’inizio del Meeting di Rimini le sue strategie per la “campagna d’autunno”, l’esecutivo sta già armando l’unico “bazooka” a disposizione “qui e ora”: un piano di privatizzazioni che comincino a tagliare il debito, confermando gli impegni con l’Europa e cominciando a costruire difese “anti-spread” che aiutino o riducano gli eventuali interventi della Bce sui mercati.
La cronaca degli ultimi giorni non disegna scenari rassicuranti. Mediobanca – l’unica storicamente capace di operare quanto meno da regista di raccordo con le grandi investment bank globali – è stata colpita duramente dal caso FonSai, nel bilancio e nel prestigio. All’estremo opposto la Goldman Sachs ha lanciato segnali inquietanti: negli stessi giorni in cui l’amministrazione Obama le ha concesso una definitiva impunità per i disastri di Wall Street, la banca “del Britannia” – che fu capofila nel gestire le privatizzazioni italiane degli anni ’90 – ha scaricato speculativamente tutti i suoi Btp in portafoglio. Ma indulgere nel gossip polemico sui legami di Monti o di Mario Draghi o dello stesso Romano Prodi con la Goldman può essere a questo punto pretestuoso e depistare il dibattito che sta precedendo decisioni che lente certo non saranno.
La Corte dei conti – per ultima – ha bocciato nel 2010 le dismissioni dei gioielli statali operate nel decennio precedente, prevalentemente dai governi del centrosinistra (anzitutto Telecom e Autostrade). L’errore principale – che difficilmente a posteriori viene più negato da alcuno – è stata l’assenza di chiarezza sugli obiettivi di quella grande operazione politico-economica. Anche allora l’Italia – reduce dalla crisi della lira nel 1992 – doveva sistemare le sue finanze pubbliche per salire sul treno dell’euro: quindi avrebbe dovuto “far cassa”. Ma l’integrazione europea e la globalizzazione ponevano – non diversamente da oggi – l’esigenza di ristrutturare l’zienda-Paese: di far crescere gruppi-leader, di aumentare la competitività esterna dell’intera economia rispondendo alla nuova concorrenza e cavalcandola. Non da ultimo, lo sviluppo dei mercati finanziari indotto dall’offerta di nuovi titoli azionari avrebbe dovuto superare una finanza “bancocentrica” ritenuta obsoleta, allocare meglio un risparmio nazionale ancora abbondante e attirare in Italia capitali esteri.
Telecom – madre di tutte le privatizzazioni – ha simboleggiato il fallimento contemporaneo dei tre obiettivi. L’offerta pubblica di vendita ha minimizzato l’incasso per il Tesoro. L’iniziale affidamento del gruppo alla famiglia Agnelli non ha dato a Telecom né una nuova proprietà stabile, né un reale dinamismo imprenditoriale, né ha aiutato la riconversione della Fiat. Telecom “contendibile” in Borsa è stata scalata dall’Opa di Roberto Colannino eterodiretta da Wall Street e ha indebitato strutturalmente il gruppo, mutilandone ogni possibilità di sviluppo dall’interno. Dopo un’altra esperienza di apparente imprenditorialità privata (Tronchetti Provera) oggi Telecom è appesa alle grandi istituzioni finanziarie del Paese (Intesa, Mediobanca, Generali) appesantendone i conti. L’unica alternativa è la definitiva cessione al partner Telefonica – campione nazionale di un’economia più debole della nostra. Ma è possibile affermare che Autostrade (trasferite al “nuovo capitalismo dei Benetton) è andata oltre il semplice cambio di etichetta su un monopolio?
Per paradosso le uniche privatizzazioni che hanno in parte funzionato sono state quelle bancarie: con il forte imbarazzo di quanti devono però ammettere che ciò è avvenuto perché Comit, Credit, Bancaroma e Imi sono state fuse nelle vecchie banche pubbliche (da Cariplo a San Paolo) le cui Fondazioni proprietarie hanno sempre presidiato il controllo e sorvegliato i manager. È pur vero che è stato il boom dei mercati a far emergere nei bilanci delle Fondazioni patrimoni miliardari che hanno consentito di ricapitalizzare le banche e di rilanciare la Cassa depositi e prestiti. La “nuova Iri” ha già in parte “privatizzato” quote di Eni, Enel, Terna e Poste: cioè il menu che il governo sta componendo – assieme a Finmeccanica e al patrimonio immobiliare del Demanio – per le grandi vendite d’autunno. Ma con quale ricetta, al dl là del vincolo protettivo della golden share?
Scegliere con convinzione e coerenza di far cassa può significare rompere tabù (ma il periodo lo consente) e accettare – in estrema sintesi – che fondi sovrani internazionali acquisiscano posizioni di controllo su grandi aziende strategiche: e non è detto che – entro i limiti dei “poteri d’indirizzo” che il governo può riservarsi – una proprietà estera non ridia smalto imprenditoriale a qualche grande gruppo (ma il recente caso Lactalis-Parmalat è stata una deludente conferma del contrario).
All’estremo opposto c’è invece – nelle sue varie formulazioni – l’idea che le aziende pubbliche siano vendute “al risparmio italiano”: a fondi che emettano titoli garantiti dallo Stato, a scadenza medio-lunga e a redditività corretta e sostenibile. Una specie di “fondo salva-Stato” domestico: che s’indebiti presso i privati italiani (a fianco di banche, assicurazioni, fondi e Fondazioni) per comprare le aziende italiane; diverso solo nell’orientamento dall’Efsf che s’indebita sui mercati per intervenire sui titoli di debito sovrano dei paesi periferici dell’eurozona.
Può essere curioso ricordare che perfino vent’anni fa era stato suggerito il modello giapponese dei “keirezu” per ri-raggruppuare in holding semi-pubbliche i gioielli di Stato e quotare queste casseforti. Prevalse invece l’ideologia anglosassone, chiaramente espressa nello slogan della primissima Opv dell’Iri: “Oltre i Bot i Credit”. Offerte di mercato per riempire direttamente i portafoglio delle famiglie: come anche nel 2000, in occasione del maxi-collocamento Enel che deluse centinaia di migliaia di italiani. L’Enel, d’altronde, si fece notare in quel periodo per l’acquisto di Infostrada, non per il miglioramento dell’offerta di energia a basso costo agli italiani.
Non è comunque obbligatorio seguire la strada delle “semi-privatizzazioni” (che potrebbe essere seguita anche per alcune grandi utilities): l’importante è chiarire le posizioni di partenza e i traguardi sperati. Di esperimenti ne sono già stati fatti molti, anzi: sono stati fatti tutti. Sbagliare di nuovo sarebbe davvero “diabolicum”.