Il documento “L’Italia e la crisi dell’euro” (presentato ieri da Confindustria, Abi, Ania, Alleanza coop, agricoltori, artigiani e commercianti di Rete Imprese) apre la campagna elettorale al più elevato livello d’impegno: certamente superiore a quello delle forze politiche alla ricerca di un compromesso sulla legge elettorale.

La “tavola rotonda dell’Azienda-Italia” era silente da alcuni mesi, ma nessuno dimentica l’effetto-svolta prodotto – giusto un anno fa – dalla nascita di un network del tutto inedito (simbolica la foto della stretta di mano fra l’allora presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia, e il segretario della Cgil, Susanna Camusso). Quel “comitato dell’Italia che lavora” aveva come piattaforma un manifesto lanciato da Il Sole 24 Ore e riscosse il formale apprezzamento del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. L’agonia finale del governo Berlusconi cominciò sotto la pressione di questo “fronte interno”, prima ancora che la speculazione sui Btp, dall’inizio dell’agosto 2011, togliesse credibilità e spazi di manovra residui al premier e al suo ministro dell’Economia, Giulio Tremonti.

Un anno dopo la “tavola” si ripresenta senza più “larga coalizione” estesa ai sindacati, ma mantenendo la compattezza imprenditoriale fra industrie grandi e piccole, private o statali, banche, assicurazioni, cooperative, micro-imprese di ogni settore. La proposta di un “Patto per l’Italia” in dieci punti, da un lato contiene un “incoraggiamento” di fondo per il governo Monti al posto della definitiva sfiducia verso il governo Berlusconi dodici mesi fa. E l’apprezzamento viene anche da chi – come il presidente di Confindustria, Giorgio Squinzi – non ha fatto mancare critiche al governo tecnico, troppo debole, a suo avviso, sul fronte dello stimolo alla ripresa. Siamo comunque di fronte a un “endorsement” – ancora una volta inedito e potenzialmente decisivo – per un “Monti-2” dopo le elezioni?

Il documento ci si avvicina molto: il titolo “Patto per l’Italia” parla da solo di un “progetto di legislatura”. Cinque anni che lascino decantare – a livello inevitabilmente globale – la “lunga crisi dell’euro” e ne gestiscano tutte le conseguenze – economiche, politiche e sociali – in Italia. Per le imprese – che pure sollecitano i partiti a seguire in fretta l’invito del Quirinale a riformare la legge elettorale – il “ritorno della politica” sembra comunque in questa fase assumere i connotati di un “rilancio dell’azione di governo”, nella quale per ora non è possibile prescindere da Monti: guida in prospettiva più “istituzionale” che “tecnocratica”.

Alle imprese italiane non sembra affatto dispiacere il Premier di ieri a Helsinki: che difende i “fondamentali” dell’Azienda-Italia contro i “mercati che sbagliano”. Piace Monti che non sta zitto contro la Bundesbank che pretende di zittire la Bce di Mario Draghi sullo scudo “anti-spread” e quindi difende una Ue che il documento delle imprese vuole non a caso “federale”. “Più Europa” vuol dire “meno Germania” e Monti (da ultimo al super-vertice di Bruxelles, un mese fa) è emerso come vero portavoce di una Ue che sottoscrive il rigorismo tedesco, ma non i suoi eccessi più rischiosi.

Questo premesso, il “Patto per l’Italia” assegna molti e impegnativi “compiti a casa” al futuro governo: chiunque sia a guidarlo. E la piattaforma delle imprese non coincide affatto con l’azione di politica economica finora sviluppata dal “Monti-1”. La spending review dev’essere concretizzata velocemente e “spesa” altrettanto velocemente per ridurre l’imposizione fiscale: sulle famiglie e sulle imprese, per ridare ossigeno a domanda di consumo e fiducia negli investimenti e nell’occupazione. Il debito pubblico – vera “palla al piede” dell’Azienda Italia – va affrontato anzitutto da chi ne è titolare formale: dallo Stato e con il suo patrimonio, non dai cittadini con il loro cash-flow fiscale o con i loro patrimoni (sui contribuenti, invece, bisogna aumentare selettivamente la pressione in termini di recupero dell’evasione fiscale).

Una campagna di dismissioni pubbliche, quindi, è irrinunciabile: e il documento è puntuale nel misurarne la portata (una riduzione di 9 punti del rapporto debito/Pil in tre anni equivale grosso modo ai 100 miliardi ipotizzati dal ministro dell’Economia Vittorio Grilli). Ma quali asset potranno effettivamente generare cassa entro il 2015? Altre fette del patrimonio immobiliare potranno essere nuovamente cartolarizzate? Oppure bisognerà metter mano ai residui “gioielli” (Eni, Enel, Finmeccanica)? E quale parte avranno le quote rilevanti tuttora detenute dai grandi comuni nelle grandi utilities (A2A; Acea, Hera, ecc.)?

Gli imprenditori, infine, chiedono di proseguire sul sentiero della “riforme strutturali”. Una formula equilibrata che sembra sfumare l’insoddisfazione della larga parte del fronte imprenditoriale sulla riforma Fornero. La richiesta è però di “equilibri più avanzati” nella ristrutturazione del mercato del lavoro, sia in entrata che in uscita: fuori dallo schematismo “più libertà di licenziare per più assunzioni”.

 

P.S.: Può essere un esercizio utile leggere accostati il documento “Un Patto per l’Italia” e l’articolo “Il coraggio di ricominciare” di Giorgio Vittadini: nel metodo politico e nel merito socio-economico.