In Borsa non c’è solo un rialzo: c’è aria di rialzo, voglia di rialzo. Nell’era pre-crisi, l’esuberanza (ir)razionale dei mercati avrebbe creato o alimentato qualche ennesima profezia quasi automaticamente destinata ad autoavverarsi, ma le bolle non erano ancora scoppiate ed erano ancora perfettamente funzionanti i circuiti “derivati” fra effetto-ricchezza (indipendente dalla ricchezza finanziaria “sottostante”), appetito per alte combinazioni di rischio-redditività, totale noncuranza per i problemi di liquidità dei portafogli esposti ai mercati. Oggi le posizioni di partenza sono agli antipodi: la distruzione della fiducia sui mercati continua a aver ragione – anche sui listini azionari – perfino dei potenti getti di liquidità da parte delle banche centrali.
È comunque un fatto – stiamo parlando di Piazza Affari -: il 20 agosto 2007 il Ftse-Mib galleggiava a 39mila punti, mentre stamattina la Borsa italiana riapre da quota 15mila, incorporando tuttora sottovalutazioni strutturali per titoli di vari segmenti importanti (banche e utilities in testa) . Ed è vero che il rally ferragostano è rimbalzato da 12.500 punti: lo stesso minimo storico del marzo 2009, a contraccolpo dell’apice della crisi bancaria (il 24 luglio si è invece consumato in Bce il concitato scontro sui nuovi strumenti “salva-Stati”). Tre anni fa la Borsa si riprese fino a 23mila punti nell’arco di un semestre, in un anno di recessione per il Pil italiano, anticipando la “ripresina” economica del 2010.
Il rally di questi giorni è destinato a svilupparsi? Quali titoli ne saranno maggiormente toccati? Quali sono i prevedibili effetti “reali” per l’Azienda-Italia? Analisti di tutte le scuole sono già al lavoro. Questa nota settimanale può solo consentirsi di riassumere alcune riflessioni di base.
La prima è che il “gioco dello spread” fra mercati e politica attorno alla crisi dell’eurozona pare essere meno convulso. È iniziato un anno elettorale che vedrà sotto esame prima il presidente Usa Obama, poi il cancelliere tedesco Angela Merkel (in mezzo, non del tutto periferico, il voto italiano, di fatto per una riconferma politica di Mario Monti). L’oligopolio finanziario sa fino a che punto può premere con la speculazione sulla stabilità politico-sociale delle grandi aree del globo e d’altra parte dai più disparati fronti istituzionali giungono segnali definiti: gli Usa hanno concesso un salvacondotto giudiziario finale alla Goldman Sachs sui “subprime”, ma hanno incriminato banche americane, inglesi, svizzere e tedesche sullo scandalo Libor e sotto scacco sono finite anche le agenzie di rating. E poi – vedi il caso spagnolo – le nuove protezioni sui debiti sovrani dell’area euro cominciano a funzionare, cominciando ad assottigliare l’effetto-branco della speculazione.
La “festa dello spread” – se non proprio finita – sembra insomma aver consumato le sue ore migliori per gli investitori in bond. E non pare un caso che siano “improvvisamente” rientrati in tensione i mercati delle derrate alimentari: certo, la siccità incombe sui raccolti di molte commodities (come il grano), ma non manca la voglia di ridare un po’ di sprint a mercati finanziari “alternativi”. Tutti ricordano la stessa Goldman Sachs che nel 2009 “vedeva” il petrolio a 200 dollari o altre recenti “bolle” politico-finanziarie (ad esempio, il riso). Insomma, i segnali che guardano alla “riscoperta” dell’azionario – con un segmento bond meno volatile – sono molti. Non ultime, le “profezie” dei banchieri centrali (per quanto poco capaci di auto-avveramento) collocano comunque nel 2013 l’inizio del rimbalzo dei Pil in Europa.
L’uscita dalle diverse crisi (quella delle banche, quella delle economie, quella delle finanze pubbliche) porta normalmente con sé ristrutturazioni radicali nei sistemi-paese. E l’Italia sembra candidata ideale: una nuova fase di privatizzazioni, anzitutto, è in cima all’agenda autunnale del governo (fra taglia-debito e stimolo alle liberalizzazioni). Ma basta scorrere la lista dei rally estivi per capire come i fari accesi sulla Borsa italiana siano molti: da Mediaset (quasi certamente oggetto di acquisti concordati con Fininvest) a Mps.
La banca di Siena (l’unica in Italia ad aver dovuto ricorrere infine a un intervento patrimoniale pubblico strutturale) ha annunciato un impegnativo piano di riassetto, affidato alla presidenza di Alessandro Profumo, il cui prestigio di banchiere europeo è un po’ appannato, ma non compromesso. Montepaschi resta una delle “big five” italiane, la Fondazione – investita da molte ombre – è destinata a ridimensionare ancora la sua storica influenza; il Tesoro ha certamente fretta di uscirsene. La banca intera vale due miliardi, il 10% 200 milioni: “peanuts”, bazzecole (e vale anche per Mediobanca…). Scopriremo nei prossimi giorni chi sta rastrellando e se ha intenzioni strategiche. Se la famiglia Aleotti sta rafforzando il suo 4% o se qualche altro investitore privato italiano punta su Profumo. Oppure se c’è qualche hedge fund che compra con tranquillità, senza aver ancora deciso: mordi e fuggi speculativo o attesa di una grande operazione di merger and acquisition che – nel nuovo mondo – non sarebbe strano interessasse la secolare Rocca senese (e neppure la leggendaria cittadella sindacale della Popolare di Milano).
E che dire di Finmeccanica? Certo – le nuove “golden rules” in preparazione da parte del Governo – sembrano pronte per proteggere la più strategica delle aziende italiane, ma chi può dire se il “soft power” italiano citato ieri a Rimini dal premier Monti non imponga il sacrificio tattico di un gioiello? In ogni caso già i prossimi mesi consentiranno di verificare un’attesa diffusa: a differenza degli anni ’90 – della lunga stagione di offerte pubbliche sul mercato concepite dal Tesoro di Mario Draghi e dalla Goldman Sachs sul Britannia – queste privatizzazioni sembrano fatte molto più per i grandi investitori istituzionali che per il mercato retail.
Fondi sovrani e hedge fund hanno tenuto in serbo miliardi di dollari per la “normalizzazione europea”: e non è inverosimile che con operazioni “one-shot” i Governi (o le municipalità proprietarie delle grandi utilities) possano incassare prezzi interessanti, a loro volta capaci di trasmettere a tutta la Borsa onde valutative più intense e corrette rispetto ai fondamentali di un’Azienda-Italia si spera in ripresa. Ma gli italiani ricominceranno a puntare i loro soldi sulle azioni italiane come a metà degli anni Ottanta e alla fine degli anni Novanta? Arduo rispondere.
Da un lato gli italiani si sono abituati a diversificare a livello globale i loro investimenti finanziari, grazie anche a un sistema di intermediari che ha via via offerto loro prodotti più sofisticati (basti pensare agli Etf, i “fondi replicanti”). Ma è anche vero che la crisi di fiducia verso l’offerta del sistema bancario ha raggiunto il suo picco: e il ritorno all’intervento diretto su titoli “domestici” può ritornare interessante rispetto all’asset management.