L’ipotesi di convocare un vertice straordinario Ue «contro i populismi e le spinte disgregatrici» è certamente suggestiva, non priva di significati ideali premesse di cultura politica, realismo storico. Negli intenti di chi l’ha lanciata – il premier italiano Mario Monti, subito appoggiato dal presidente belga dell’Unione, Hermann van Rompuy – si avverte subito la buona fede intellettuale di un grande europeista “di pensiero e di azione” fra Milano, Roma, Bruxelles. E si farebbe certamente torto a Monti attribuendogli retro-pensieri di bottega domestica. Se il senatore a vita è preoccupato dalle derive populiste all’interno dell’Europa, non sta pensando a quanti voti contano oggi nei sondaggi italiani Beppe Grillo, Antonio Di Pietro o la Lega in vista delle politiche di primavera, ma verosimilmente di più alle dinamiche centripete dell’opinione pubblica bavarese: per i quali greci, italiani, spagnoli e portoghesi assortiti dovrebbero essere “sganciati” al loro destino dall’euro e dall’Unione. La “road map” ridisegnata pochi giorni fa dal presidente della Bce Mario Draghi fatica già a farsi strada fra i tecnocrati e politici responsabili del Nord Europa: figurarsi se viene lasciato spazio alla “Francia profonda” della figlia di Le Pen, ai particolarismi spagnoli, alle esasperazioni greche, alle opposte spinte dell’Italia del Nord e di quella del Sud. Primum “euro” e tutto fa brodo: non si possono sicuramente accusare i Draghi e i Monti se non cedono neppure un centimetro del fronte loro assegnato, in Italia e in Europa. E’ il loro mestiere e ci si impegnano: gli altri – i politici – facciano lo stesso.

Certo, un «vertice straordinario contro i populismi anti-europei» – una riunione del massimo organi istituzionale della Ue, non un workshop di Cernobbio – qualche riflessione la suggerisce, forse la impone. Almeno sul piano teorico e dialettico: per collocare il “gioco pesante” dei tecnici nella democrazia mutevole e mutante, cinque anni dopo che la crisi finanziaria ha mandato in pezzi tutti gli equilibri fra politica ed economia di mercato. Già nella sua motivazione, un summit «per salvare l’Europa» lascia immaginare come esito concreto qualche “anatema”: una condanna solenne per tutti coloro che “giocano contro l’Europa”.

Ma chi decide ciò che è “europeo”  e ciò che è “antieuropeo”? E che senso avrebbe un “pronunciamento” da parte di chi è al governo “qui e ora” nella Ue-27 contro chi è “outsider”? Perché chi non è al governo – in Italia o altrove – o la pensa diversamente da Monti e Draghi deve essere “bandito” preventivamente dalla prossime elezioni? Ed è già possibile immaginare lamentazioni specifiche in Italia: che titolo ha un premier non eletto per sollecitare e poi trarre eventuali conseguenze di una sentenza ultra-politica, al cuore della “costituzione politica” dell’Europa? Per di più Monti rimane candidato a succedere a se stesso come premier “riformatore”, appoggiato da un’ipotetica maggioranza la cui entità e composizione rimane però oscura. O meglio: l’avvicinamento alle elezioni si sta di fatto trasformando in un radicale braccio di ferro, in un doppio referendum – sull’euro e su Monti – nel quale scegliere l’euro implicherebbe automaticamente scegliere Monti (esemplare la consonanza, a caldo, degli editoriali di Sergio Romano, ieri sul Corriere, e di Eugenio Scalfari su Repubblica). 

Da un lato del campo vi sono coloro che considerano tuttora in vigore la “vecchia” democrazia e conclusa la fase dell’emergenza tecnocratica in favore di un ritorno alla normalità, con la politica ai suoi posti di comando e la finanza stabilizzata nel suo alveo. Posizione sulla carta ineccepibile, “costituzionale”. Dall’altro lato spingono invece coloro che – in nome dell’emergenza ancora in corso e del “nulla sarà come prima” -sostengono che la permanenza di Monti a Palazzo Chigi è ormai una variabile indipendente: il voto non potrà che ratificarlo, adattandosi a questo vincolo esterno. Di più: Monti – se vuole “completare il lavoro” delle riforme strutturali (di necessità reale o presunta in Italia, più o meno “sollecitate dall’Europa”) – non può certo contare sulla “strana coalizione” che nei fatti lo ha finora supportato in parlamento (“Abc”: Pdl, Udc, Pd “contro” Lega e Idv, con Sel Movimento 5 Stelle per ora fuori dalle camere). No: è necessario garantire a Monti una maggioranza “politica” nel senso di “omogenea alle visioni di Monti”. Il quale, negli ultimi giorni, si è mosso ormai da politico e neppure alle prime armi.

Due giorni prima di sollecitare a Cernobbio un perentorio “endorsement” (un po’ tecnico, un po’ politico) da parte dei governanti europei, si è presentato a Firenze davanti alle assise del Ppe e non solo per un saluto istituzionale. I riferimenti all’“economia sociale (sussidiaria) di mercato” come bussola politico-economica e all’aggiustamento iniziale dei rapporti fra la prima Forza Italia e il Ppe non sono stati affatto banali. Certo, il giorno dopo alla Fiera del Levante, Monti è tornato a vestire i panni dell’illuminismo tecnocratico: «Se la politica sbanda, non possono che tornare i tecnici», ha ammonito.

Lo stesso presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, si è spinto negli ultimi giorni a lamentare alcuni «limiti» che starebbero evidenziando alcuni «parlamenti nazionali». E’ l’ora del grande passo, ha prefigurato il Capo dello Stato italiano: l’«Unione politica», accelerando oltre l’unione economico-finanziaria in convalescenza; l’unione fiscale e quella bancaria in cantiere. Il Quirinale, infine, è intenzionato a «vigilare sul dopo-Monti» (affermazione un po’ impegnativa per un presidente-garante com’è quello della Costituzione repubblicana italiana). Posizione in ogni caso rispettabile: ma la fretta di rottamare le istituzioni democratiche nazionali sembra fare il paio con l’ansia dei tecnici di certificare che l’Europa “vera” (quindi: la politica “buona”) è la loro, in antitesi a l’Europa e la politica delle popolazioni nazionali che – per principio culturalmente e storicamente acquisito – esprimono democraticamente la loro sovranità attraverso la mutabilità dei propri orientamenti elettorali.

Il “gioco degli equivoci” emergente (ma detto senza intento equivoco) è esemplare in lucido articolo pubblicato in questi giorni su vari quotidiani europei a firma di Jean Claude Trichet: predecessore di Draghi al vertice Bce e prima ancora governatore della Banca di Francia. Il regista della difesa dell’euro durante la crisi drammatica del 2008-2009; il più autorevole “padre dell’euro” vivente: un banchiere centrale dell’Europa continentale, distante da condiscendenze per l’«esuberanza dei mercati» che – fra Londra e Wall Street ha trasmesso un’«irrazionalità» via via fatale a banche ed economie dal 2008 in poi. Trichet vuole «più Europa con più democrazia»: vuole una «democrazia 2.0» come condizione e pilastro per un «euro 2.0».

E la sua proposta operativa è semplice: una «federazione per eccezione». Poiché i meccanismi puramente tecnici hanno mostrato i loro limiti con il primato della politica (ad esempio le sanzioni automatiche ai paesi che non rispettano i parametri di Maastricht nelle finanze pubbliche) sono necessari strumenti istituzionali politici nel rispetto della democrazia. Quali? Una sovranità “di secondo livello” del Parlamento europeo sui parlamenti nazionali: un’attivazione della democrazia rappresentativa parallela a quella già collaudata a livello esecutivo con il “Consiglio dei ministri Ue” e la Commissione. I Parlamenti nazionali dovrebbero avere la possibilità (ma in fondo anche l’obbligo) di confrontarsi con l’Europarlamento in situazioni come ad esempio quella odierna dell’Italia o della Spagna: risolta invece – faticosamente e temporaneamente – nella sede tecnica del consiglio generale della Bce. E’ l’uovo di colombo?

Anche sulla buona fede intellettuale e civile di un Trichet non è lecito dubitare. Diventa subito più insidioso lamentare che ciò appare chiaro alle menti di un Trichet o di un Draghi (o di un Monti prestato alla politica) sembri drammaticamente meno chiaro nelle menti di una Merkel, di un Hollande, perfino (fino all’anno scorso) di un Berlusconi o di un Tremonti. O addirittura di un Prodi: presidente della Commissione Ue dal ’99 al 2004. Ma proprio l’ex premier italiano, ieri a Cernobbio, ha rammentato: «Il premier di un paese o la politica in Europa non la decide la comunità finanziaria o le élites riunite qua da Ambrosetti». Certo, l’anno scorso l’Italia è stata colpita dalla speculazione finanziaria che l’ha premuta all’angolo nell’eurozona: ma l’attacco ne è stato l’effetto (e Monti ne è stato il medico d’urgenza) o la causa (cioè un riflesso dell’oligopolio bancario e della tecnostruttura finanziaria che hanno provocato la crisi globale e non accettano di essere ri-regolamentati e ridimensionati)? Come ha ricordato ieri Massimo Mucchetti sul Corriere della Sera, sono quattro anni che la Fed stampa dollari comprando enormi quantità di debito pubblico Usa, e la Banca d’Inghilterra fa lo stesso: eppure né l’amministrazione Usa né quella della Gran Bretagna (paese membro della Ue) hanno mai dovuto prendere impegni di politica finanziaria.

Certo, l’euro è un club con regole sue e in questa nota ci siamo sempre detti personalmente un po’ “merkeliani”. Ma abbiamo anche affrontato, di volta in volta, il dramma inaccettabile delle banche italiane che, dopo aver rivelato alla prova della crisi maggior solidità di tante consorelle francesi, tedesche o spagnole, sono state punite ingiustamente dall’Eba: vigilante tecnico, ma non al punto da separare l’impatto di una speculazione esterna, ostile, forse pilotata dalle reali necessità di ricapitalizzazione del sistema italiano rispetto agli altri europei. Tecnica e politica, democrazia e mercati sono probabilmente a un passo decisivo nell’aggiustamento dei loro rapporti strutturali dopo la crisi. Sarebbe un dramma definitivo se l’Italia si ritrovasse “messa in mezzo” com’è già avvenuto l’anno scorso. Sarebbe un peccato che le capacità di Monti venissero inscatolate (magari da lui medesimo) nel profilo sinistro di un irrinunciabile “papa straniero”: peggio ancora se  il suo stemma diventasse il feticcio di forze politiche cui la democrazia «popolare» (non «populista») non riconoscerebbe che un pugno di voti.

Ps: nel 2005 un parlamentare ed ex ministro italiano, Rocco Buttiglione, fu bocciato da una commissione dell’Europarlamento dopo essere stato designato dal Consiglio dei ministri Ue come Commissario alla giustizia. Sollecitato, Buttiglione non aveva voluto rinnegare la sua coscienza anti-abortista di cristiano cattolico di un paese fondatore dell’Europa contemporanea. Dovette rinunciare: evidentemente non era abbastanza “europeo”; per alcuni anzi era un pericoloso “anti-europeo”. Ma chi decide chi/cosa è “europeo” o non lo è?