Della Valle contro Marchionne e gli Agnelli; Montezemolo “dissociato” da Della Valle e contro Casini; il Corriere che attacca Casini, bollando addirittura di non-programma indebito il “Monti dopo Monti” e bersagliando le “liaisons” in corso con il ministro Passera e l’ex leader degli industriali Emma Marcegaglia. È il logoro tempo supplementare di un gioco di società in cui tutti hanno quasi perso? È sicuramente un gioco che non produce più utili per Fiat (almeno in Italia); per Rcs – che nel fine settimane riunirà il patto di sindacato sulla ricapitalizzare le maxi-perdite; per la stessa Mediobanca, che sempre nei prossimi giorni presenterà un accidentato bilancio 2012.
A Palazzo Chigi siede un super-tecnico – Mario Monti – che nel suo curriculum ha la presenza nei consigli di Fiat e Generali, oltreché il prestigio trentennale di prima firma del Corriere. Il nesso fra il parto della “terza repubblica” e il futuro dei molto-cosiddetti “poteri forti” è quindi nelle cose e il crinale mediatico è più che mai profilato perché il “gioco duro” della recessione e delle elezioni chiama in causa anche la tenuta e il riassetto della pericolante editoria cartacea e televisiva.
Non è affatto un caso che un redivivo Berlusconi batta colpi ovunque: ritorna sulla scena politica con piglio prudente da “riserva della Repubblica”; dà il cambio a Murdoch come “media mogul” globale nell’azzannare la famiglia reale britannica (business is business); lascia che lo Squalo di NewsCorp tratti una possibile alleanza strategica con il gruppo De Benedetti, che nel frattempo si disinteressa di TiMedia (La7), dando spazio proprio a Mediaset. E l’afasia – senz’altro quella politica – che sta accompagnando l’aprirsi di tutte queste “vertenze” finanziarie è sicuramente l’evidenza più netta: al di qua di qualsiasi analisi di merito. Ma addentrarsi nello sviluppo prevedibile delle singole vicende – almeno per l’osservatore – sarebbe probabilmente un errore se questo facesse perdere di vista un possibile dato di sintesi: nell’angolo della crisi sono, per molti versi, le stesse forze che hanno alimentato la pressione anti-politica di lungo periodo che ha caratterizzato l’intera seconda metà del ventennio berlusconiano.
È in crisi d’identità strutturale quell’Italia che ha sempre vantato una propria efficienza (anzitutto imprenditoriale) e una superiore competitività internazionale (teorizzata quotidianamente sui suoi “media”) rispetto all’“altra Italia berlusconiana”: quella dell’imprenditore televisivo sempre tacciato di collusioni illegali con la politica; quella del “primo degli immobiliaristi”; quella del leader delle “partite Iva” che prospererebbero solo sull’evasione fiscale; quella – infine – dei “costi della politica” mai tagliati e semmai gonfiati dopo le ripetute affermazioni elettorali.
Sconfitto duramente nel 2008 (dopo la controversa affermazione di Prodi nel 2006) il fronte antipolitico ha trovato una partnership insperata nella crisi dell’euro che – dopo la Grecia – ha fatto dell’Italia il terreno di gioco di tutte le battaglie geopolitiche e di mercato. Mario Draghi, tecnocrate campione dell’antipolitica, ha gestito il pressing di Europa e mercati, aprendo infine la strada del governo tecnico affidato a Monti. Il “patronage” del Quirinale ha funzionato nel dare al premier la chance di poter succedere a se stesso come grande riformatore dell’Azienda-Italia e delle sue istituzioni democratiche (sul Corriere il costituzionalista “liberal” Michele Ainis afferma che la legge elettorale potrebbe benissimo essere varata “per decreto” da Monti stesso se le forze politiche tardassero nel trovare un accordo).
Ma il professore della Bocconi si ritrova – forse inaspettatamente – senza truppe: o con truppe divise e indebolite alle spalle. E non stupisce che lo stesso Monti abbia iniziato a muoversi su un terreno politico al di fuori dei format antipolitici: ad esempio, manifestando simpatia per il Ppe e tornando a punzecchiare il Pd sullo Statuto dei lavoratori (con accenti oggettivamente “marchionniani”). Non sorprende, allora, che il Corriere “montiano” attacchi la formazione finora apparentemente più “montiana”: l’Udc. Né deve stupire che Della Valle – eterna “testa calda” della finanza e dell’industria italiana, protagonista di scontri epici con Berlusconi – torni ad attaccare l’establishment finanziario: quello che lo ha sempre escluso, alle rese dei conti, da ogni grande partita, dall’eterna partita che ruota attorno al triangolo Mediobanca-Generali-Rcs.
Il “modello Della Valle” – a differenza di altri – non è in crisi: vede spazi nella ricapitalizzazione di Rcs, operazione che potrebbe vedere in difficoltà entrambi i soci-pivot, Mediobanca e Fiat (al Lingotto “in fuga” dall’Italia potrebbe anche essere chiesto di lasciare Rcs). Ma l’industriale marchigiano, centrista per vocazione, a suo tempo sodale di Clemente Mastella, fiuta anche sommovimenti politici proprio al centro: dove anche l’Udc è per molti versi un “partito-azienda” (con Francesco Gaetano Caltagirone come finanziere ed editore di riferimento).
L’antipolitica “alta” – approdata infine al potere ma subito scopertasi debole – fa i conti con la propria ossessione ventennale: sostituire Berlusconi, ritenuto una molesta brutta copia del “potere forte”. Ma la stessa antipolitica non riesce a non convergere verso la forza antipolitica che ancora rimane nel tardo berlusconismo.