Rinvio per Mediobanca, rinvio per Rcs, rinvio per Fiat. L’ultima settimana ha visto istituzioni-pilastro della finanza nazionale “passare la mano”, giocare di sponda o sedersi sulla sponda di fronte a passaggi strategici impegnativi e pressoché obbligati. Piazzetta Cuccia ha archiviato un bilancio in utile risicato, dopo un ultimo trimestre in rosso. Le pesanti svalutazioni imposte dal mercato alle partecipazioni strategiche (Generali, Rcs, Telecom) hanno tagliato le gambe ai conti Mediobanca, ma hanno soprattutto puntato nuovamente l’indice sul modello della banca d’affari: già duramente colpito in termini di reputazione dal coinvolgimento giudiziario dell’amministratore delegato Alberto Nagel nel salvataggio del gruppo Ligresti.
Mediobanca – che ha recentemente messo in dubbio le capacità delle Fondazioni bancarie di essere buoni soci strategici delle grandi banche – è un buon azionista strategico? In altri tempi la domanda sarebbe stata eretica: anche se, a ben vedere, la specialità dell’istituto è sempre stata quella di soccorrere (quasi sempre a prezzo del controllo) gruppi in difficoltà, assai più che costruire storie industriali di successo (esemplare, negli anni ’90, il tentativo di dare un futuro a Gemina, associando Rcs con Valentino e Marzotto).
Tutte e tre le “aziende di Mediobanca” – in ogni caso – stanno accusando crisi strategiche. Le Generali hanno cambiato management (e la fine della “triestinità” dirigenziale non è stata certo uno scherzo per il Leone) e stanno affrontando una crisi dimagrante: mentre Cesare Geronzi – presidente defenestrato prima in Piazzetta Cuccia poi a Trieste – può mettere a posteriori il dito sulla piaga dello “stile Mediobanca”, quest’ultima sta preparando una riduzione del pacchetto di maggioranza relativa (salito nel tempo al 14%) sia in termini di alleggerimento del bilancio – anche per i nuovi standard di Basilea 3 – sia soprattutto in termini strategici.
Un chiarimento, tuttavia, non è ancora pronto: la scissione fra le attività bancarie e le partecipazioni appare prematuro. Quando avverrà sarà abbattuto l’ultimo caposaldo della “prima Repubblica” finanziaria: quella in cui il capitalismo misto, pubblico/privato, trovava nella banca di Enrico Cuccia la sua sintesi e il suo baricentro.
Nel frattempo Piazzetta Cuccia deve badare all’impasse di Rcs, l’editoriale esemplare della leadership finanziaria milanese così come la Bocconi lo è di quella cultural-imprenditoriale. La media company del Corriere della Sera soffre, come altri grandi gruppi del settore, di una tripla crisi: recessione, trasformazione dell’Ict e del mercato dell’informazione, inefficienze legate a un controllo frammentato, non orientato alla redditività aziendale, condizionato da varie logiche politiche. Il conto è comunque arrivato a metà 2012 con una pulizia di bilancio da 400 milioni di euro e con il cambio di amministratore delegato. Pietro Scott Jovane sta accelerando nell’elaborazione di un piano di riassetto e ha già operato alcune dismissioni (Flammarion). Ma il fallimento dell’avventura spagnola (Unidad Editorial) ricorda quelli di une ventina d’anni fa: Rcs Video (acquisizione della statunitense Carolco) e Fabbri Editore (ceduta da Ifi).
La legge, comunque, assieme alle esigenze di bilancio, impone a Rcs di ricapitalizzare e può sembrare un paradosso che un’azienda periodicamente soggetta a rastrellamenti e scalate (l’ultima volta all’inizio di settembre da parte di Diego Della Valle) tenga congelata un’operazione sicuramente alla portata dei soci del patto (a cominciare da Mediobanca, Fiat e Intesa Sanpaolo) e di quelli che scalpitano fuori (Della Valle o Giuseppe Rotelli). Ma tant’è, visto l’esito del patto di sindacato di venerdì, mettere in cantiere un aumento di capitale azionario significa mettere in discussione gli equilibri di controllo del “Corriere” alla vigilia della tornata elettorale.
E se Mediobanca ha qualche problema di identità e di bilancio, Fiat, in questo momento, non è certamente in grado di versare un solo euro per mantenere una partecipazione editoriale diversificata nel mentre sta bloccando i suoi investimenti industriali “core” in Italia e si accinge a chiedere sussidi pubblici (sgravi fiscali o cassa integrazione).
Sabato, del resto, a Palazzo Chigi il rinvio è andato in scena per la stessa crisi del Lingotto. Al vertice Fiat, in fondo, premeva, “accusare ricevuta” dal governo italiano della propria decisione di non procedere agli investimenti in Italia (20 miliardi di preventivo) recita il comunicato torinese. L’esecutivo Monti ha concesso a metà il riconoscimento: il summit è stato informale e non ha partecipato il ministro del welfare, Elsa Fornero. E poco è filtrato di veramente preciso sulle richieste reciproche (aiuti all’auto verso garanzie occupazionali): probabilmente perché nulla è stato davvero messo sul tavolo.
Il Governo con le Parti sociali (fra le quali la Confindustria è ufficialmente orfana della Fiat) stanno accelerando per definire un accordo per la produttività entro metà ottobre: sarebbe l’ennesimo test europeo di capacità italiana di operare riforme strutturali, dopo le manovre draconiane di un anno fa. Probabilmente dopo la chiusura di quel tavolo il governo potrà agire sulle leve della “politica industriale” e/o su quelle dei primi ammortizzatori sociali di nuova generazione.
Sperando che tutto non si risolva in ennesimi rinvii pre-elettorali, l’augurio è che Monti – in quest’occasione – rimanga distante dallo “stand by” di quel mondo nordico (da Mediobanca, al Corriere, alla Fiat) di cui è stato prodotto esemplare.