Un tempo – ormai non più troppo vicino – Mediobanca preannunciava appena una “riunione del consiglio d’amministrazione”, com’e avvenuto per la convocazione di dopodomani. Meno che mai una seduta del “board” avrebbe avuto all’ordine del giorno la valutazione dell’operato dell’amministratore delegato: com’è in programma per il 5 settembre riguardo Alberto Nagel e il caso Ligresti-FonSai. Per quasi cinquant’anni è avvenuto l’esatto contrario: il capo-azienda (che poi era Enrico Cuccia in persona o, successivamente, il suo aiutante di campo Vincenzo Maranghi) operava in totale e perfetta autonomia. Questa poteva, di volta in volta, assumere forme procedurali che assicurassero il rispetto (minimo) della legge e della prassi. Negli anni ’90, ad esempio, i poteri del comitato esecutivo (già praticamente pari a quelli del consiglio) erano attribuiti al presidente (Francesco Cingano) e all’amministratore delegato (Maranghi) con la controfirma di un altro consigliere (era Silvio Salteri, ex amministratore delegato in pensione, che trascorreva all’uopo parte delle sue giornate in Via Filodrammatici, dov’era ovviamente sempre presente Cuccia, presidente onorario). Il consiglio si riuniva a cose fatte: l’ordine del giorno era frammentario, non c’era informativa preliminare ai consiglieri, nessuna carta era posta sui tavoli, Maranghi leggeva con voce monotona e sbrigativa nomi e cifre di cui il “board” non sapeva e spesso non capiva nulla. La scalata soft a Comit e Credit appena privatizzate; oppure la fusione (abortita) fra il Corriere della Sera e il gruppo Marzotto; o l’Opa (fallita) della Generali sulla francese Agf. Talora l’operazione poteva riguardare un gruppo socio di Mediobanca o un personaggio che siedeva nel consiglio: ad esempio Pirelli oppure la stessa Comit. Poco cambiava: nel ’94 Sergio Siglienti apprese in assemblea che Mediobanca (di cui era formalmente vicepresidente in rappresentanza di un azionista rilevante) aveva deciso di rimuoverlo dalla presidenza della Commerciale.
In questa cornice di “governance materiale” Mediobanca ha gestito crisi molto più problematiche di quella del gruppo Ligresti (basti pensare al crack Ferruzzi, al lungo sostegno alla Fiat degli Agnelli attraverso Cesare Romiti, alla stessa scalata Montedison che ha partorito FonSai) con passaggi più duri di quelli finiti nei verbali delle indagini della Procura di Milano: come l’ormai celebre confronto fra Nagel e i Ligresti nello studio dell’avvocato Rossello, segretario del patto Mediobanca. “Un pezzo di torta”, direbbero a Wall Street, in confronto a Michele Sindona che fa collocare un ordigno incendiario davanti alla casa milanese di Cuccia. Nulla a paragone dell 23 luglio 1993, quando Raoul Gardini viene ritrovato suicida durante i funerali di Gabriele Cagliari, il presidente dell’Eni incarcerato dai Pm di Mani Pulite, lui pure morto a San Vittore di uno strano suicidio. Già: anche Tangentopoli lasciò indenne l’istituto.
Chi insegue (o vagheggia) l’ennesima “svolta” in Mediobanca – magari proprio dal consiglio “straordinario” in agenda – rischia di somigliare a un lontano osservatore dell’assalto finale dei tartari alla fortezza Bastiani. Come nel romanzo di Buzzati, alla fine una battaglia si combatte: ma non è quella immaginata per decenni dal tenente Drogo, che non vi partecipa; e anche i veri contendenti (che nelle pagine non compaiono) sono lontani anni luce. Combattono, certamente, una loro “battaglia”. Come quella che si annuncia per il futuro di Mediobanca: che però promette di delineare “ciò che verrà dopo Mediobanca”.
L’istituto nasce, cresce e declina nella seconda metà del XX secolo per iniziativa dello Stato post-fascista (Cuccia era stato funzionario dell’Iri mussoliniana) e si muove costantemente come agenzia-centauro fra due capitalismi misti: quello industriale (molto pubblico e poco privato) e quello finanziario (sempre molto più di banca che di Borsa). Il tutto in un’economia chiusa, protetta, poco contendibile nella proprietà e poco liberalizzata nei mercati. L’Opa Telecom (vivo ancora Cuccia) è l’estremo tentativo di Mediobanca di affermare la sua centralità fra politica e finanza in spazi globali enormemente più complessi. Dopo aver propiziato – senza successo – una privatizzazione “alla Mediobanca” presso gli Agnelli, l’istituto cavalca l’Opa concepita a Wall Street e appoggiata su due “newcomer” come il premier Massimo D’Alema e il “padano” Roberto Colaninno. Oggi Telecom – affidata al controllo posticcio della stessa Mediobanca, indebitata, senza strategie – è il simbolo dell’usura irreversibile del modello incarnato dall’istituto: il quale, per la prima volta, nel dissesto Ligresti, si trova vittima dei suoi strutturali conflitti d’interesse (un tempo il debito bancario sarebbe stato appoggiato “d’autorità” solo su banche satelliti o comunque sul sistema nazionale. La rimozione di Giovanni Perissinotto dal vertice manageriale delle Generali è un’altra soluzione di continuità storica: mai Mediobanca aveva tradito i dirigenti triestini a favore di un Ceo esterno come Mario Greco.
La questione non è in ogni caso “cosa” succederà (il tendenziale “superamento” di Mediobanca attraverso una ristrutturazione del gruppo, sia nelle sue attività bancarie sia nelle partecipazioni) e neppure “quando”: tutto è già cominciato e il “caso Nagel” non sarà causa ma è già effetto. Meno facile predire “come”. Un esempio per tutti: Rcs, affronterà una probabile ricapitalizzazione in tempi ravvicinati. Mediobanca sarà regista e manterrà il suo ruolo di azionista preminente? Sull’altro versante: l’istituto sarà protagonista della campagna privatizzazioni che si annuncia come uno dei veri elementi di continuità fra Monti-1 e Monti-2 a cavallo delle elezioni? E stato lo stesso Nagel, difendendosi in una controversa intervista a “Repubblica”, a riportare apertamente Mediobanca nell’ambito dell’ampio confronto politico-finanziario: Piazzetta Cuccia come “istituzione del Paese”. Di quale Paese? Nulla sarà più come prima. Il passato, stavolta, passa anche per Mediobanca.