Chissà come Enrico Cuccia avrebbe classificato “l’ingenuità” confessata ieri davanti al consiglio di Mediobanca dall’amministratore delegato Alberto Nagel. Un peccato “veniale”, per un banchiere, come “scappare con la cassa”? Oppure “mortale”, come “lasciarsi scappare un’informazione riservata”? In attesa di capire come “l’ingenuità” del successore di Cuccia verrà giudicata dalla Procura di Milano, che sta indagando sul dissesto del gruppo Ligresti, è agli atti che il successore di Cuccia e di Vincenzo Maranghi ha trascorso le ultime settimane soprattutto a fornire “informazioni”. Il verbale del lungo interrogatorio di inizio agosto, nello studio del Pm Luigi Orsi, si è tradotto in un’eccezionale compendio di storia finanziaria italiana: quando sarà disponibile – se manterrà le promesse di alcune brevi indiscrezioni citate dalla Reuters – si annuncia più avvincente di un romanzo. Ma Nagel non ha mancato di anticiparne lui stesso il succo in ben due interviste: una a Repubblica (un’altra “ingenuità” carpita, si è poi lamentato Nagel) e una al Wall Street Journal. Né mancano, sui tavoli giudiziari, gli sbobinati grezzi delle intercettazioni telefoniche, forse la minaccia letale: può un banchiere d’affari gestire una banca e fare affari con il telefono sotto controllo?
Il teorema difensivo del Ceo di Piazzetta Cuccia, in ogni caso, offre più di un profilo di debolezza: analitica prima che di efficacia sul piano giudiziario o di governance interna dell’istituto. Il “cedimento” alla famiglia Ligresti – avvenuto nell’ormai famoso incontro riservato nello studio dell’avvocato Cristina Rossello, segretario del patto Mediobanca in quanto erede di Ariberto Mignoli – è giustificato da Nagel in modo contraddittorio. Da un lato la presa d’atto delle richieste di buonuscita della famiglia su Premafin-FonSai è considerato come gesto “umanitario” verso il vecchio Ingegnere. Dall’altro – all’estremo opposto – è invece presentato come un atto cui il capo di Mediobanca non poteva sottrarsi per via delle relazioni che Ligresti intratteneva con alcuni soci importanti di Mediobanca. Nagel indica assieme Alessandro Profumo (ex amministratore delegato di UniCredit) e Cesare Geronzi, ex presidente di Capitalia e – per brevi e turbolente parentesi – presidente della stessa Mediobanca e delle Generali.
Difficile – per un osservatore della routine della City milanese – immaginare due personaggi più diversi. Profumo e Geronzi furono tra l’altro duramente contrapposti proprio nel passaggio decisivo della storia recente di Mediobanca, il ritorno alla governance tradizionale, nel 2008, con la riaffermazione dell’autonomia del management interno (Nagel e l’attuale presidente Renato Pagliaro). Allora venne davvero a maturazione la lunga “guerra di successione” iniziata di fatto con la scomparsa di Cuccia (2000) e poi con la defenestrazione di Vincenzo Maranghi (2003). Com’è noto era stato il delfino di Cuccia a condurre una sorta di auto-scalata dell’istituto appoggiandosi al vecchio partner Antoine Bernheim e ai suoi nuovi soci francesi (Vincent Bolloré) per prevenire un prevedbile attacco da parte della Banca d’Italia di Antonio Fazio. L’attacco divenne controffensiva e non risparmiò Maranghi: i soci francesi lo tradirono quando Geronzi e Tarak ben Ammar (“power broker” internazionale da sempre vicinissimo a Silvio Berlusconi) negoziarono un compromesso che catapultò i giovani Pagliaro e Nagel al vertice dell’istituto.
E’ questa premessa – vecchia di un decennio, ma non marginale – che è stata ignorata o contraddetta da Nagel quando – su Repubblica – denuncia un “complotto” politico-finanziario in corso da anni ai danni di Mediobanca. Geronzi e i soci francesi poi identificati come “braccia” di Berlusconi (il quale è comunque presente in Mediobanca via Fininvest e via Mediolanum) sono stati fatti entrare in Piazzetta Cuccia da Maranghi e hanno – nella sostanza – agevolato la difesa dell’autonomia di Nagel nel delicato dopo-Cuccia. Ovvio che, successivamente, Geronzi abbia portato direttamente in Mediobanca e Generali tutto il suo “ingombro”: ma era comunque il peso di un socio. Anzi: di due soci come UniCredit e Capitalia, dopo la fusione del 2007 e pur dopo la diminuzione della loro quota congiunta. L’autonomia del vertice Mediobanca verso i suoi grandi soci, certamente, non poteva più essere quella di Cuccia e Maranghi: ma questo è stato – e resta anche in questi giorni – un fatto, non un “complotto”.
E’ stata la fusione fra UniCredit e Capitalia a portare in Piazza Cordusio l’esposizione debitoria del gruppo Ligresti presso Capitalia: di cui FonSai era azionista, in posizione già problematica di “parte correlata”. Può in ogni caso essere significativo seguire la traiettoria professionale di Piergiorgio Peluso (figlio dell’attuale ministro dell’Interno Annamaria Cancellieri): junior di Mediobanca, dirigente al “corporate” di Capitalia, cooptato dopo la fusione in UniCredit Banca d’Impresa, inviato in FonSai come direttore generale durante l’ultimo anno cruciale, ora dato già in uscita verso la direzione finanziaria di Telecom. E’ agli atti anche che l’unica astensione “solidale” a Profumo – nel cda UniCredit che lo estromise a fine 2010 – giunse dal gruppo Ligresti: nel frattempo traslocato in Piazza Cordusio come “parte correlata”. In ogni caso ora Nagel “accusa” Profumo: perché? Mediobanca, certamente, si ritrova in modo inedito a essere pesantemente esposta verso il dissesto Premafin-FonSai: ma chi ha “tradito” chi, fra UniCredit e la partecipata di Piazzetta Cuccia? In ogni caso un Nagel che “confessa” di essere condizionato dai suoi grandi azionisti non commette un’ingenuità: si lascia scappare una fondamentale “informazione riservata”. Forse è un’obbligata “via di fuga” sul piano giudiziario: ma se Mediobanca – che deve certamente affrontare una ristrutturazione strategica, imposta dalla sostanza economico-finanziaria di casi come quello FonSai – dev’essere amministrata da top manager che rispondono ai loro soci (in particolare a UniCredit o ai gruppi incrociati come Ligresti), allora può rivolgersi a un cacciatore di teste e scegliere fra centinaia di curriculum.
Ps: l’acuirsi dello scontro fra Marco Tronchetti Provera e la famiglia Malacalza – salito a monte da Pirelli a Camfin fino alla cassaforte familiare Gpi – è la manifestazione più esemplare della crisi non solo del “modello Mediobanca”, ma più in generale della “finanza di debito” nel delicato mercato della contendibilità delle imprese. I Malcalza vogliono che il gruppo sia ricapitalizzato per davvero: con “equity”. Tronchetti – che non può affontare un’aumento di capitale e rischia una diluizione-marginalizzazione – invece ripropone lo strumento-principe della “finanza di Mediobanca”: un prestito obbligazionario convertibile. Che è poi l’ipotesi-base per una manovra di capitale più delicata ancora nell’agenda di Piazza Affari: quella di Rcs. L’editore del Corriere della Sera deve ricapitalizzare dopo il maxi-abbattimento delle perdite 2011: ma la via maestra di un aumento di capitale imporrebbe interventi da parte del grandi soci – a cominciare da Mediobanca e Fiat – che potrebbero incontrare difficoltà. Il cda di Piazzetta Cuccia autorizzerebbe oggi Nagel a partecipare all’aumento di capitale in Rcs? E come verrebbe valutato un nuovo investimento editoriale da parte del gruppo pilotato da Sergio Marchionne?