Le dimissioni traumatiche del presidente dell’Abi, Giuseppe Mussari, giungono al termine di una settimana di escalation drammatica, nella quale la “questione bancaria italiana” è riemersa in tutti suoi profili contraddittori. È stato per primo il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, a finire sotto una pressione triplice: quella della Bce (un “fuoco amico” un po’ inatteso, firmato Mario Draghi), che ha segnalato una fuga di capitali dall’Italia che a Via Nazionale non risulta; poi quella “pop” degli studenti dell’università di Firenze; infine quella vagamente “barbarica” dei vigilantes Fmi che hanno bussato direttamente agli uffici contabili delle grandi banche italiane, segnalando inevitabilmente il ridimensionamento della supervisione di Palazzo Koch sul suo orto di casa mentre l’Europa accelera sull’Unione bancaria.



Ma anche il premier-candidato Mario Monti ha vissute le sue ore amare: lui, accusato in Italia di essere il capo del “governo dei banchieri”, è stato pesantemente attaccato dal Financial Times, forse la più potente voce dell’oligopolio bancario globale. Perché? Forse perché assieme a vent’anni di berlusconismo vuole probabilmente superare anche la turbo-finanza delle privatizzazioni allegre e dell’Opa Telecom? Forse perché sta dando molto spazio alla Cassa depositi e prestiti e meno di quanto si attendevano nella City ai colossi internazionali? Forse perché l’Italia veramente “buona” resta quella dello spread speculativo a 575, non quella che recupera fiducia a forza di sacrifici?



Infine, il leader associativo dei banchieri italiani ha dovuto gettare la spugna: per gli sviluppi (giudiziari e non) del salvataggio del Montepaschi, l’unica banca italiana che non è riuscita a superare con i propri mezzi l’intero arco della crisi finanziaria internazionale. Quest’ultimo caso meriterà sicuramente molti approfondimenti, anche se sarebbe opportuno che la stessa magistratura – oppure le diverse autorità di vigilanza, o il nuovo management Mps, o i politici che ne governano la pericolante Fondazione – approfittassero di una situazione dannatamente seria come la stabilità del credito per cercare una propria exit strategy dagli anni “folli” delle intercettazioni o dei mezzi verbali, “strumenti tossici” della giustizia mediatica.



Sarà la Procura di Siena – oppure Bankitalia e Consob, oppure i soci Mps in assemblea – a decidere con i diversi strumenti propri se e come Mussari debba rispondere di qualcosa: non da ultimo il costo ultimo dell’unico vero salvataggio bancario italiano operato dallo Stato (3,9 miliardi dei Monti-bond). Senza dimenticare che il successore di Mussari a Siena, Alessandro Profumo, è finito sotto i fulmini della Procura di Milano per presunti illeciti.

Se tuttavia questo qualcosa è “tout court” l’aver acquistato AntonVeneta a 9,3 miliardi nel 2007 o aver dato il proprio assenso a operazioni di finanza strutturata in perdita con Deutsche Bank o Nomura negli anni successivi, questo non attiene soltanto o principalmente le sue responsabilità legali personali: questo interpella la “questione bancaria” che irrompe inesorabilmente in campagna elettorale (su Ilsussidiario.net abbiamo già notato come lo stesso candidato del centrosinistra alla Regione Lombardia, Umberto Ambrosoli, abbia posto in cima al suo programma la costruzione di una “banca regionale di sviluppo”).

Un filo rosso congiunge le disavventure di Mussari, le incomprensioni fra Visco e i giovani fiorentini, quelle fra Monti e i poteri londinesi, quelle fra l’Italia e la Ue, quelle fra gli sforzi di milioni di italiani e il traguardo della ripresa. Il “credit crunch” è la dolente interfaccia fra un sistema bancario vittima “innocente” (come si è proclamato anche ieri Mussari) della debolezza italiana nelle tempeste provocate dall’implosione dei mercati e dalle pesanti ricadute geopolitiche e un sistema bancario “colpevole” di aver ceduto anzitutto la propria sovranità “culturale”, quando ha ridotto la propria funzione obiettivo a creazione di valore per gli azionisti nel breve periodo. La questione bancaria – interna al Paese, ma soprattutto verso l’esterno – è dunque centrale nel passaggio politico-economico italiano.

Da un lato l’antipolitica che bussa prepotente alle urne è nata sulle piazze del risparmio tradito di Cirio e Parmalat; dall’altro gli “squadroni” del Fmi – come un anno fa i tecnocrati europei dell’Eba – entrano senza chiedere permesso nelle grandi banche italiane imponendo regole contabili e di vigilanza apparentemente tecniche e condivise, di fatto “politiche” e discriminanti. In mezzo ci sono il risparmio e il credito: e su questo terreno – a lui congeniale – Monti può far veramente valere il suo “spread” di statista, se lo ha accumulato in tanti anni di università e di Commissione Ue. Mentre potrebbe vanificarsi ogni “remontada berlusconiana”, ogni eccesso grillino, ogni pretesa di superiorità etico-politica da parte del Pd di Bersani.