Il clima d’opinione sta cambiando attorno alle banche italiane: faticosamente ma visibilmente. E sono opinioni che pesano, come quella del ministro dell’Economia. Fabrizio Saccomanni ha approfittato della sessione autunnale del Fondo monetario internazionale non più per sciacquare i soliti panni – sporchi o meno – ma per sfiorare la polemica con chi mette in dubbio la solidità del sistema creditizio nazionale. E fra questi ci sono ancora gli economisti Fmi, che invece non cambiano mai opinione: le banche italiane (come a suo tempo il debito pubblico greco) sono oggi un buon pretesto per sostenere che in Europa le cose non funzionano. Così un ultimo rapporto di Washington torna a lamentare una patrimonializzazione debole per le banche italiane (fra i 6 e i 14 miliardi), ma ignora la cronaca più calda e spicciola: è la Germania a frenare sull’Unione bancaria e la vigilanza unica, temendo che alle banche locali tedesche vengano applicati gli standard italiani per il calcolo delle sofferenze e della solidità, al top della severità (nel progetto di legge di stabilità l’abbattimento fiscale delle perdite su crediti è abbassato da 18 a 5 anni, ma rimarrebbe ancora penalizzante rispetto alla media delle regole Ue).

“Abbiamo fatto test e contro-test”, ha insistito Saccomanni, che fino a sei mesi fa era direttore generale della Banca d’Italia: le banche spagnole sono state salvate dall’Europa (anche dall’Italia…) quelle italiane no, neppure il Montepaschi. Il messaggio del Tesoro (ma ha fatto eco anche il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco) è stato inviato anzitutto all’ex collega italiano Andrea Enria, oggi ai vertici dell’Eba. In attesa che la Bce assuma le funzioni di vigilante sovrannazionale – almeno per il pattuglione delle banche “sistemiche” – l’authority creditizia comunitaria sta preparando un nuovo “stress test” per l’inizio del 2014: una specie di “due diligence” con cui l’Ue e la Bce vogliono cautelarsi in vista dell’attivazione dei fondi e dei regolamenti salva-banche. Ma il ricordo dell’esame di fine 2011 è ancora vivo in Italia, dove le stesse banche che avevano ben resistito nel 2008-2009 al ciclone post-Lehman sono state messe in ginocchio dalla speculazione sul debito pubblico italiano, valutate poi in misura discutibile e discriminatoria dall’Eba.

Se Saccomanni mostra stavolta di voler mettere le mani avanti (Mario Monti non riuscì mai a intervenire nel 2011-2012), il Fmi è tornato a puntare il dito “a prescindere” contro il ruolo delle Fondazioni e delle Popolari. Se nel primo ambito Washington mette sotto accusa i casi Mps e Carige (diversi tra loro, in ogni caso non troppo diversi dalle crisi di numerose Sparkassen e Landesbanken tedseche), il secondo accende i fari su una Popolare – quella di Milano – tuttora ritenuta simbolica della presunta anomalia italiana. La Bpm è da sempre nel mirino di mercati e authority per la sua “governance” dominata dai dipendenti soci e – ultimamente – per un oggettivo fabbisogno di capitale legato a una gestione debole fino all’ingresso del finanziere Andrea Bonomi.

Il suo è un cammino su cui questa piccola nota ha provato a riflettere più volte, l’ultima in piena estate. A Bonomi – e alla Banca d’Italia – non abbiamo fatto mancare critiche quando si sono impuntati a interpretare in termini stretti e ideologici i “desiderata” di mercati e Fmi: trasformare la Bpm in Spa. La bocciatura dell’assemblea Bpm è stata una riposta tangibile della “realtà italiana” contro un tentativo – ennesimo – di coartarla e annientarla. Non per questo – anche in occasione dell’ultimo passaggio – abbiamo difeso “tout court” la posizione dei dipendenti-soci: essa pure ormai a rischio di obsolescenza storica per un gruppo delle dimensioni e dell’importanza della Milano e dopo il periodico emergere di fasi di gestione debole, opaca e critica (quella dell’ultimo Schlesinger vent’anni fa e recentemente quella della presidenza Ponzellini). Abbiamo per questo suggerito una strategia che a noi è parsa ormai “obbligata” (una partnership forte, se non addirittura una fusione) e dei “nomi” per realizzarla (li riproponiamo con lo stesso spirito aperto di tre mesi fa).

Non si può che osservare con interesse il decollo di un modello rivisto di “governance” – cosiddetto “bilanciato” – che Bonomi sta pilotando, facendo sponda su un atteggiamento apparentemente meno “talebano” anche da parte della autorità di vigilanza. L’evoluzione del governo societario (con più spazio ai rappresentanti degli investitori “non cooperativi”) tutela l’autonomia della Popolare nella sua “famiglia bancaria”, ma toglie spazio – cioè alibi – ai dipendenti-soci e al loro tacito desiderio di immobilismo. Il gradualismo di questo nuovo orientamento restituisce senso anche alla seconda tranche di aumento di capitale: che può diventare un momento di verifica sostanziale per la Bpm e per il suo futuro.

Sarà certamente decisivo il voto che le diverse autorità bancarie assegneranno all’Italia e alle sue singole banche: per questo è importante che governo e Bankitalia diano importanti “segnali di vita”. Ne avrà bisogno anche la Bpm, non diversamente dalle sue sorelle Ubi, Banco Popolare, Emilia-Romagna, Sondrio, Credito Valtellinese, Vicenza, Etruria: la Bankitalia che s’impegna a “difendere” le sue banche in Europa, è la stessa che – prevedibilmente – suggerirà aggregazioni e ristrutturazioni, nella speranza che il sistema stesso prenda l’iniziativa.

Stavolta non sarà possibile dir di no a una soluzione che appare “bilanciata” in tutti i termini. La prima carta da giocare spetta in ogni caso ai dipendenti-soci: indicare per il Consiglio di sorveglianza un presidente di vera garanzia: per il cambio di “governance”, ma soprattutto per le novità strutturali che il gruppo di Piazza Meda non potrà eludere. Il giro di boa in Bpm promette comunque – assieme allo scioglimento del dossier Mps – di essere il vero “stress test” per il sistema bancario italiano.