Le teste d’uovo del Fondo monetario internazionale hanno gettato un sasso in piccionaia – ma senza troppa fantasia – proponendo un’imposta patrimoniale-choc del 10% per riequilibrare una volta per tutte i debiti pubblici dei paesi più colpiti nei bilanci dalla crisi finanziaria e poi dalla recessione. Per la verità il Paese a rischio-default, negli ultimi giorni, erano gli Stati Uniti. E non è affatto escluso che gli economisti del Fiscal monitor Fmi – cosmopoliti, ma tutti residenti a Washington – abbiano fatto esplodere un classico petardo accademico a sottile beneficio del Presidente democratico Barack Obama, impegnato in un durissimo braccio di ferro parlamentare con i repubblicani ostaggio dei Tea Party. Letto in controluce, il monito politico lanciato in direzione dei super-ricchi americani – con crescente fama di impuniti dopo il crac di Wall Street – poteva essere questo: Repubblicani, non tirate troppo la corda sull’innalzamento del tetto del debito federale, non provate a sabotare la riforma sanitaria “Obamacare”, non sfidate la Casa Bianca in un’escalation politico-fiscale dagli esiti imprevedibili quanto quelli della crisi siriana.

Al di qua dell’Atlantico, in ogni caso, i riflessi condizionati hanno subito acceso i fari sui paesi deboli dell’euro, fra i quali l’Italia occupa forse la posizione più scomoda: la più fragile nei conti pubblici fra i grandi paesi dell’Ue; la più soggetta a un’austerity fiscale che – per ora – le ha tuttavia evitato l’umiliante richiesta di aiuti europei, ciò che ci distingue ancora (lo si ricorda sempre troppo raramente) da Spagna, Portogallo, Irlanda e Grecia.

Lo studio Fmi è stato in ogni caso pubblicato praticamente nelle stesse ore in cui il governo Letta presentava il suo progetto di budget 2014. Sono state dunque inevitabili le simulazioni (da talk show) su un maxi-prelievo sulla ricchezza finanziaria delle famiglie italiane: 8.600 miliardi, secondo le ultime statistiche della Banca d’Italia, concentrati per quasi due terzi in beni immobiliari. Non volendo tener conto di alcuna stratificazione fra “ricchi” e “poveri”, il 10% ultra-lordo di questo stock (860 miliardi) andrebbe ad abbattere per oltre il 40% il debito sovrano nazionale (2.060 miliardi a fine agosto). Il quoziente debito/Pil (oggi fuori livello al 130%) precipiterebbe a un 70-80% ultravirtuoso: roba da far luccicare gli occhi ai guru del Fondo, alla maggioranza silenziosa dei tedeschi e magari anche a qualche parlamentare del Pd (non è detto ai “cani sciolti” grillini). Ma la politica fiscale reale, anzi la politica “tout court”, è un’altra cosa: un conto è la lotta all’evasione (e in Italia ce n’è da fare molta), un conto è l’assalto ai forni nella Milano manzoniana o le requisizioni in un Paese occupato in guerra. Altro conto ancora è la “giustizia sociale” perpetrata per via fiscale in fasi storiche particolari.

Giustizia vera e propria, non la più ampia e ordinaria istanza solidaristica che è alla base di qualsiasi sistema fiscale democratico (anche di quello italiano). Il report Fmi, per darsi vesti di realismo, richiama proposte di imposizione patrimoniale straordinaria nel secondo dopoguerra, ma per la verità già all’indomani della Prima guerra mondiale la “giustizia fiscale” provò a entrare in azione: anche in Italia, contro i “sovraprofitti di guerra”. L’Erario tentò di farsi restituire da alcuni grandi gruppi produttori di beni bellici una parte degli utili realizzati “sulla pelle” dei cittadini che avevano già pagato la grande guerra varie volte: come contribuenti in denaro o in natura (servizio militare); come risparmiatori attirati in “prestiti nazionali” quasi forzosi; come consumatori resi più poveri dalle spese di guerra; come disoccupati al ritorno dalle trincee.

Qualcuno sostiene che l’ascesa del fascismo in Italia sia stata favorita nel primo dopoguerra anche dall’insofferenza dei ceti imprenditoriali e “rentier” (i “pescecani”, nel gergo giornalistico dell’epoca) nei confronti del pressing fiscale sui “sovrapprofitti” e questa è un’altra storia. Ma a tutta quella storia è venuto da pensare quando, meno di cento ore dopo l’alzata d’ingegno del Fmi, sempre da Washington è filtrato il pre-annuncio di una maxi-transazione da 13 miliardi di dollari fra la JPMorgan e il Dipartimento alla Giustizia, cioè l’Amministrazione federale degli Stati Uniti. Quella semi-chiusa dallo shutdown delle ultime due settimane, perché il Congresso era spaccato sull’aggiustamento del bilancio federale.

Una della quattro maggiori banche americane ha accettato comunque di risarcire lo Stato (ma più in generale “la Repubblica” americana) per i danni provocati dalla vendita di titoli tossici prima del crac 2008. I fallimenti a catena provocati dal collasso della finanza derivata annoverarono due vittime eccellenti: Freddy Mac e Fannie Mae, le due agenzie semi-pubbliche di garanzia dei mutui. Nate per fare da balia – dall’Est all’Ovest – al sogno americano di una casetta con giardino, si ritrovarono esse pure nell’incubo perverso dei mutui “subprime”: finanziamenti che non avrebbero mai dovuto essere concessi per comprare case a prezzi che non avrebbero mai dovuto essere pagati.

A cinque anni dall’esplosione atomica del crac Lehman, uno dei grandi “produttori” di armi finanziarie accetta di pagare i danni di quella guerra anomala: quasi una guerra civile, e per molti versi una guerra di “ricchi” contro ”poveri”. Questi ultimi – come milioni di soldati morti o sopravvissuti in due guerre mondiali – hanno pagato molte volte: prima per una casa “tutta, subito, quasi gratis” che poi hanno spesso perduto assieme ai propri risparmi; poi per uno Stato che li ha tassati di più, ha tagliato loro molti servizi, si è indebitato di più a nome loro (e anche per salvare le banche); poi per una banca centrale che ha cominciato ad agitare il dollaro guardando più a Wall Street che a Main Street; infine, soprattutto, per un’economia che è stata atterrata nel reddito e nell’occupazione per le turbolenze recessive legate alla crisi finanziaria.

Vedremo fin da oggi, come andrà a finire: l’impressione è che i “rumor” del fine settimana sulla maxi-transazione siano stati alimentati soprattutto dalla banca di Jamie Dimon, che ha già dovuto alzare la sua offerta di obolo da 11 a 13 miliardi di dollari (all’incirca il saldo della Finanziaria italiana). I danni (reali) provocati da JPMorgan e dalle sue sorelle ammontano comunque sempre a infinitamente di più: a quelle migliaia di miliardi – di dollari o euro poco importa – che la “gaia scienza” del Fondo monetario vorrebbe far ri-pagare ai cittadini.