È una ben strana guerra quella che si va combattendo attorno alla legge sull’Opa. Una riforma “per decreto” è stata sollecitata pochi giorni fa da un ordine del giorno approvato a maggioranza dal Senato, fra i dubbi espressi dal governo: quindi appena poco sopra il grado zero della consistenza politica, per di più sul delicatissimo terreno della contendibilità dei grandi gruppi quotati (il testo che andrebbe modificato è il “Testo unico della finanza” firmato nel 1998 da Mario Draghi, a sintesi di quasi un decennio di apertura dei mercati in Italia). A presentare l’ordine del giorno è stato Massimo Mucchetti, giornalista de Il Corriere della sera, catapultato pochi mesi fa in Senato (e subito alla presidenza della commissione Industria) direttamente dalla cima del “listino” Pd riservato a Pierluigi Bersani, segretario e candidato premier del centrosinistra, clamorosamente bocciato alle ultime elezioni.
Mucchetti ha proposto il superamento della soglia unica al 30% per il lancio dell’Opa obbligatoria: andrebbe invece data alle società quotate la possibilità di fissare nel proprio statuto una soglia “su misura” inferiore a quella di legge; e in ogni caso la Consob avrebbe il potere di determinare quando un soggetto ha il “controllo di fatto” di una società e quindi sarebbe obbligato all’Opa anche al di sotto della soglia di legge. Il neo-senatore non ha fatto mistero che la sua proposta e le pretese ragioni d’urgenza sono legate agli sviluppi del caso Telecom Italia. Poche settimane fa i soci di Telco (la holding che detiene il 22,4% di Telecom) hanno raggiunto un accordo in base al quale la spagnola Telefonica subentrerà progressivamente ai grandi azionisti italiani (Mediobanca, Generali, Intesa Sanpaolo) assumendo quindi il controllo indiretto di Telecom.
L’operazione – è un dato di fatto – configura il passaggio di controllo di una delle maggiori blue-chip italiane eludendo l’obbligo di Opa a beneficio delle minoranze azionarie: ma è altrettanto vero che la Consob si è già pronunciata – negativamente circa l’obbligo – sulla situazione di Telco in Telecom. Ma è oltremodo evidente che la tutela dei piccoli azionisti sul mercato (cioè la “ratio” giuridica principale della normativa Opa) non è la preoccupazione prioritaria della mozione Mucchetti. L’obiettivo – praticamente dichiarato – è invece di porre qualsiasi ostacolo possibile a Telefonica e alla perdita del controllo “nazionale” su Telecom.
La riforma “per decreto” di una legge dello Stato (anzi: di un testo unico) si presenta quindi a più livelli strumentale e per molti versi paradossale: Mucchetti & C non vogliono che Telefonica lanci l’Opa su Telecom (cioè che un grande gruppo estero rispetti un principio generale dell’ordinamento finanziario italiano); vogliono invece costringerla a congelare “ex nova lege” un progetto concordato su un singolo gruppo privato dal polo iberico con tre fra le principali istituzioni finanziarie italiane. Mucchetti & C, inoltre, con altrettanta evidenza stanno cercando di dar tempo a un tentativo di contro-scalata in fase di elaborazione da parte del ex presidente Franco Bernabé e del gruppo Fossati, storica minoranza in Telecom con il 5% (otto anni fa – sempre in nome dell’italianità delle grandi aziende – Gianpiero Fiorani tentò la stessa operazione su AntonVeneta e Bnl con l’appoggio dell’allora Governatore della Banca d’Italia, Antonio Fazio: oggi – giusto o sbagliato – sono entrambi già stati pesantemente condannati in terzo grado).
C’è comunque dell’altro che questa piccola nota – peraltro mai insensibile alle ragioni dell’italianità, per quanto complesse – non può non ricordare ancora. Telecom è diventata “non italiana” nel 1999: quando alcune banche angloamericane videro spianata l’autostrada della “madre di tutte le Opa” su Telecom. Non ebbero bisogno di far leva su qualche parlamentare italiano per cambiare le regole in corsa: bastò individuare un gruppo di piccoli e semisconosciuti businessmen italiani (la “razza padana”) e far cavalcare loro la tigre di un’Opa volontaria e totalitaria che spolpò completamente Telecom.
Bene, il governo che appoggiò entusiasticamente i “capitani coraggiosi” (ma anche il potente oligopolio bancario che li muoveva) era guidato da Massimo D’Alema e il suo factotum su Telecom era uno scalpitante sottosegretario all’Industria proveniente dalle Lega coop emiliana: Pierluigi Bersani. Quasi quindici anni dopo, è lui a muovere un senatore “dell’ultima ora” (eletto in uno dei “listini” altrimenti famigerati: certamente quando i parlamentari sono di centrodestra) nel tentativo di piegare le regole “ad societatem”, interferendo nel mercato per nascondere il disastro finale di una “privatizzazione molto privata” consapevolmente condotta dagli allora vertici Ds.