Al Montepaschi come a Carige – due gruppi della top-ten italiana – le cose non hanno funzionato: né in banca, né nelle Fondazioni che le hanno controllate fino agli ultimi dissesti, nonostante la riforma Amato-Carli abbia quasi un quarto di secolo. Ma è accaduto anche a Cassa Marche, Tercas, CariFerrara: poli minori, ma comunque ben all’interno di un modello di “governance” Fondazioni-Casse. Lo ha riconosciuto il presidente dell’Acri, Giuseppe Guzzetti, alla recente Giornata del risparmio: rinunciando all’assist che pure il Governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, gli ha fornito sottolineando i pesanti fattori esterni della crisi generalizzata del credito in Italia.
L’89esima “Giornata” è stata forse la convention più difficile affrontata dalle 88 sorelle dell’Acri e dal loro leader. Più difficile, a conti fatti, delle roventi “Giornate” che hanno punteggiato – fra il 2001 e il 2003 – il duro confronto con il Tesoro di Giulio Tremonti, che puntava a riportare l’intero sistema-Fondazioni sotto stretto dominio statale. Dieci anni fa le sentenze della Corte costituzionale fissarono infine l’autonomia delle Fondazioni come pilastri della sussidiarietà. La “seconda riforma” (che consolidava la legge Ciampi del 1998) sembrava essere quella definitiva: arretrati per larga parte nel ruolo di investitori istituzionali rilevanti dei “campioni” bancari nati da privatizzazioni e fusioni, gli enti sembravano essere approdati a una dimensione stabile, nella quale sviluppare meglio le loro strategie no profit nei territori.
Oggi invece è tempo di nuove polemiche e di nuovi esami. Tanto che lo stesso Guzzetti – presente il ministro dell’Economia Fabrizio Saccomanni, supervisore delle Fondazioni – ha voluto gettare cuore e cervello oltre l’ostacolo, anticipando una bozza di mini-riforma in cinque punti. Su tre questioni ha detto Guzzetti, la “terza riforma” è quasi cosa fatta. Il governo – prevedibilmente attraverso un decreto di aggiornamento della legge Ciampi – fisserà il divieto, per una Fondazione, di controllare la sua “banca conferitaria”. Poi il divieto per una Fondazione di indebitarsi (è quanto ha fatto la Fondazione Mps per mantenere la maggioranza della sua banca). Infine, l’obbligo per un ente di diversificare il patrimonio entro una probabile griglia quantitativa (partecipazioni bancarie e quotate diverse; asset management della liquidità; immobili, ecc.).
Sue altri due punti – ha confermato anche Saccomanni – la “dialettica” è invece ancora aperta: il divieto per le Fondazioni di investire in hedge fund e derivati; e maggiori obblighi di trasparenza sull’allocazione del loro patrimonio. Una fase di confronto su questi due dossier non è sorprendente, né preoccupante. Il settore degli hedge fund offre ormai opportunità di extraprofitto a rischio controllato: grandi Fondazioni non vorrebbero rinunciarvi – in questa fase di estrema contrazione dei dividendi bancari – destinandovi quote marginali dei propri portafogli. Idem per i derivati: spesso utilizzati in modo proprio come strumenti di gestione del rischio di mercato (a cominciare proprio dalle grandi quote bancarie, falcidiate in Borsa).
Per quanto importante – soprattutto perché concordata – la mini-riforma in cantiere appare tuttavia tecnica e strumentale. Il tallone d’Achille delle Fondazioni – soprattutto in termini d’immagine – rimane l’interfaccia delicata fra i sistemi politici locali e le stanze dei bottoni delle grandi Fondazioni. Era su questo fronte che, con maggior anticipo ancora, Guzzetti aveva lanciato un “manifesto di autoriforma”. A metà 2012, al congresso del centenario di Palermo, l’Acri aveva disegnato la propria nuova frontiera attraverso una “Carta” cui tutte le associate si erano impegnate ad aderire su tre versanti: la governance, le politiche di investimento e quelle di erogazione istituzionale.
Non c’è dubbio che Guzzetti considerasse – e consideri tuttora – come vera sfida il “balzo avanti” del modello di governo: la costruzione di standard condivisi che marchino la distanza fra enti locali designanti e Fondazioni. E su questo terreno a Guzzetti non deve certamente aver fatto piacere che le cronache degli ultimi giorni abbiano registrato l’offerta di dimissioni (respinte) del presidente della Compagnia San Paolo Sergio Chiamparino. L’ex sindaco di Torino è finito indagato per precedenti vicende di appalti comunali e ha atteso un anno prima di approdare al vertice della Fondazione di cui la municipalità torinese è il più importante “stakeholder”.
Il profilo problematico del “caso Chiamparino”, tuttavia, è sostanziale: come Siena ha insegnato, un Comune è bene si limiti a designare consigliere specchiati e capaci. Un sindaco che muova alla presidenza della “sua” Fondazione non va bene: tanto più se lascia correre sui giornali le voci di un suo ritorno “girevole” alla politica come possibile candidato alla Regione Piemonte nel 2015. La “Carta delle Fondazioni” – già recepita da oltre metà degli statuti – afferma invece il contrario: sia in entrata che in uscita i corridoi politica-Fondazioni devono restare chiusi. Solo così – e solo con comportamenti altrettanto corretti ed efficaci nella governance delle banche, negli investimenti e nelle erogazioni – le Fondazioni potranno evitare i cannoni sempre puntati e mai scarichi dell’oligopolio finanziario globale che – a maggiore ragione durante una propria crisi – tenta di ribaltare responsabilità e di conquistare a poco prezzo ricche “fortezze bancarie” altrui.