La Consob non monitora i siti delle autorità di Borsa di altri paesi: oppure lo fa, ma non sa poi che pesci pigliare quando scopre che Blackrock – il maggior gestore globale – punta su una blue-chip italiana come Telecom, al centro di uno scontro fra soci e paesi, in un settore ultrasensibile come le tlc. Sarà pure che la commissione guidata è ormai ridotta a due membri e che – soprattutto – il suo presidente Giuseppe Vegas è un “mohicano” insediato da Giulio Tremonti. Però la Consob, nei suoi quasi quarant’anni di vita, ha raramente funzionato: da quando Guido Rossi vistò la quotazione del Banco Ambrosiano fino a quando Lamberto Cardia ha fatto a tempo a non vigilare né su Parmalat, né sul gruppo Ligresti. Dei presidenti di un quarantennio salviamo il politico Enzo Berlanda (che era anzitutto un commercialista di Bergamo) e il tecnocrate Tommaso Padoa Schioppa. Nessun professore. Ora che è virtualmente aperta la corsa-selezione per la successione di Vegas, una sola raccomandazione: per cortesia niente magistrati, tanto meno se in cerca di una pensione dorata.
Su Telecom c’è poco da dire, è già accaduto tutto: nel 1999 con l’Opa di Roberto Colaninno, protetta da Massimo D’Alema e Pierluigi Bersani, e manovrata dalle banche di Wall Street, che hanno spolpato il gruppo È un’azienda in pesante crisi finanziaria e strategica: non la vogliono più i soci italiani (Mediobanca, Intesa, Generali) peraltro indeboliti dalla crisi e poco popolari. In fondo non è proprio desideroso di farsene carico neppure il partner Telefonica: indicative le dimissioni dei vertici iberici dal board Telecom, al di là delle questioni sollevate dall’antitrust in Brasile. L’unico che in Telecom sembrava trovarsi bene era il presidente Franco Bernabé, tutore di uno status quo gradito in Italia (soprattutto sul versante sindacale) e magari anche oltre Atlantico. Uno status quo non più sostenibile, anche se è Bernabé verosimilmente ad agitarsi dietro le quinte per fermare Telefonica: ma non è pro o contro di lui che si è mossa Blackrock, con un investimento risibile, sanamente speculativo. Perché Telecom è ormai un titolo su cui è possibile puntare 100 milioni di euro e sedersi al tavolo per pesare. Da Telecom va messa in salvo la rete (su cui lo Stato può e deve investire), e poi l’azienda andrebbe lasciata al mercato. E la Cgil lasciata a strillare per le decine di migliaia di posti di lavoro a rischio.
Dopo aver provato a piegare “ad societatem” la legge sull’Opa a favore di alcuni interessi nel caso Telecom, il neo-senatore Pd Massimo Mucchetti sta rimontando una questione di lana caprina sulla trasformazione del capitale di Banca d’Italia: lo fa – da ultimo – su quel Corriere della Sera di cui era vicedirettore quando la questione è stata creata ad arte la prima volta, durante le operazioni “anti-Fazio” del 2005. Se la crociata liberista di quell’estate – strumentale agli assalti esteri ad Antonveneta e Bnl – non avesse teorizzato il falso (cioè che Bankitalia era condizionata dalle banche partecipanti al capitale) e addirittura imposto per legge il cambio di struttura proprietaria della banca centrale, probabilmente nessuno nel 2013 si sarebbe azzardato a suggerire la rivalutazione delle quote di partecipazione a fini di emergenza fiscale e di rafforzamento patrimoniale delle banche italiane in vista di Basilea 3.
Invece, dopo mesi di caccia alle streghe a Fazio, fiumi di inchiostro accademico sul Corriere e su altri media, un dettato di legge (per di più inattuato) è ovvio che le banche italiane – regolarmente accusate di conflitti d’interesse – ottengano l’applicazione di una norma sulla quale converge anche il governo. E se la “potabilità” europea del cambio di statuto in Bankitalia richiede alcune foglie di fico – come l’introduzione di un limite di possesso votante al 3% – non si va troppo per il sottile: tanto più che la vigilanza bancaria sulle banche maggiori dal prossimo aprile non sarà più di via Nazionale, ma di Francoforte. Difficile – nel frattempo o anche dopo – che Blackrock si conceda un investimento nella banca centrale italiana. In ogni caso non è oggi – con questo aggiustamento statutario – che la Banca d’Italia perde o rischia di perdere indipendenza e soprattutto credibilità.
La morte di Angelo Rizzoli Jr ha suscitato un profluvio di commenti e ricostruzioni significative di un pezzo importante di un “passato che non passa” nel Paese. Rilevante, fra tanti, un editoriale diMilano Finanza: il direttore Paolo Panerai (candidato condirettore de Il Corriere della Sera durante i mesi concitati del crac Rizzoli e del caso P2) invita virtualmente Matteo Renzi, neo-leader del Pd, a non trascurare – nella sua strategia di rottamazione e rifondazione di Prima e Seconda Repubblica – il difficile guado attuale del quotidiano di Via Solferino. Lui fiorentino, legato al patron della Fiorentina Diego Della Valle (azionista-protagonista in campo nella battaglia in corso su Rcs), rammenta in dettaglio al suo sindaco come trent’anni e più fa un Corriere a suo parere totalmente dominato dai “comunisti” sia stato fatalmente consegnato dal presidente del Nuovo Banco Ambrosiano, Giovanni Bazoli, alla Fiat di Gianni Agnelli: il nonno di Yaki Elkann.
Giusto o sbagliato, nel 2005, la Procura di Milano non esitò a risolvere d’imperio il duro scontro fra Abn Amro e la Popolare di Lodi su AntonVeneta: arrestò letteralmente non solo Giampiero Fiorani, ma anche il 40% di AntonVeneta rastrellato dalla cordata italiana. Dal sequestro giudiziario il pacchetto fu consegnato direttamente ad Abn Amro (che fallì di lì a pochi mesi, mentre AntonVeneta fece poi fallire il Montepaschi, ma è un’altra storia). Nel 2013 l’intero palazzo di giustizia di Siena sembra invece affaccendato altrove quando attorno a piazza del Campo si consuma lo spettacolo di una Fondazione fallita che tenta di mantenere il suo ruolo alla guida di una banca fallita e ne impedisce la ricapitalizzazione e la ristrutturazione. Qui i magistrati sono convinti di aver finito il loro lavoro una volta individuati e mandati a processo un pugno di impiegati che avrebbe fatto un po’ di cresta su alcune operazioni finanziarie. Dopo vent’anni di giustizia-spettacolo e di magistratura egemone (a Milano e dintorni) nel “passato che non passa” – lungo la penisola – restano evidentemente ancora porti giudiziari chiusi per nebbia 365 giorni all’anno.